Un commento alla Mostra di Paola Ceccarelli “donna acqua terra” a Castel Sismondo a Rimini fino all’8 dicembre 2014.

Quando, dopo la presentazione della Mostra di Paola Ceccarelli “donna acqua terra” svoltasi nel cortile di Palazzo Sismondo a Rimini il 25 agosto 2014, il pubblico presente alla inaugurazione si è portato all’interno del Castello, nella prima sala d’esposizione regnava un silenzio surreale. Mai ho visto tanto raccoglimento e tanta reverenza. Quel silenzio, da solo, manifestava lo stupore che tutti aveva preso di fronte alle opere di Paola Ceccarelli esposte. Poi, il Direttore del Museo, ha chiesto a Paola di spiegare alcune sue opere, la loro origine e il loro significato. La parola, allora, sintetica ed essenziale di Paola, è venuta a completare quella percezione di bellezza che ci aveva bloccato ogni espressione verbale. Credo che questo episodio, assolutamente spontaneo e imprevedibile, mostri il carattere vero dell’opera d’arte, che deve certo stupire, ma non nel senso di provocare una reazione istintiva, come per lo più avviene nell’arte contemporanea, ma deve provocare in noi la contemplazione della bellezza, la quale, a sua volta, permette all’essere stesso di rivelarsi attraverso l’opera d’arte. Diceva il pittore ottocentesco Giovanni Segantini che l’opera d’arte deve provocare in noi un’esperienza estetica, una emozione profonda, altrimenti è inutile. Ed egli intendeva proprio quello stupore primordiale attraverso il quale si mostra a noi l’essere in qualche suo aspetto fondamentale.
Che cosa ci rivela dell’essere la scultura di Paola? E come ce lo rivela? Innanzitutto, bisogna sottolineare che la scultura di Paola è sì una scultura figurativa e realistica, ma con una forte valenza simbolica. Essa descrive e narra, certo, ma in modo sintetico ed essenziale, rendendo semplici ed archetipiche le forme figurative utilizzate, forme talmente essenziali che sono quasi puri simboli di esperienze dell’essere che Paola percepisce nella sua vita estetica. Così la forma e la figura assumono l’incarico di fare parlare l’essere attraverso la loro funzione di segno che rivela e vela nello stesso tempo l’essere di cui parla.
E di cosa parlano questi segni? Cosa dicono dell’essere queste forme/figure altamente simboliche nella loro sinteticità? Essi parlano innanzitutto del fatto che noi siamo “terra”, cioè siamo fatti di polvere (“e che in polvere torneremo”). E’ vero, come è stato detto dai critici, Beatrice Buscaroli e Alessandro Giovannardi, presenti alla inaugurazione e coautori, insieme a Massimo Borghesi, della parte critica del Catalogo della Mostra, che le figure di Paola hanno un grande slancio “evolutivo” verso l’alto, ma nello stesso tempo esse si radicano profondamente nella terra, come, ad esempio, le “donne-roccia”, che emergono dalla materia e sembrano costituire un tutt’uno con la pietra. Infatti, una conferma di questo radicamento alla terra ce l’abbiamo anche dalla forma più marina ed acquatica che costituisce un archetipo molto potente nella scultura di Paola: la conchiglia. E’ vero che si parte dal mare, ma la conchiglia che prevale nelle sculture di Paola è innanzitutto l’ostrica. Ora, l’ostrica è un mollusco stupendamente paradossale perché, mentre da una parte è delicatissimo e vulnerabilissimo, dall’altra è tenacissimamente avvinto alla roccia e così capace di chiudersi nelle sue valve che solo esperti pescatori sanno staccare le ostriche dal loro sito roccioso e sanno aprirle senza rischiare di ferirsi. E l’ostrica può contenere la perla, fatta della stessa materia di roccia di cui sono rivestite all’esterno, ma dentro lucida e argentea della madreperla di cui è costituita, generata da quello stesso mollusco. Questi significati, allusivi sia alla verginità che alla maternità, ovviamente di Maria, erano ben noti ai grandi rinascimentali che hanno usato questa simbologia, come ad esempio Piero della Francesca. Ma in Paola tutto questo parla senza parola, in silenzio, perché ogni segno porta una sapienza che viene dalle profondità della tradizione, senza necessità di ostentazione.
“Siamo terra”, oltre che mare/acqua, sembrano dire le conchiglie/ostriche di Paola Ceccarelli; ma “siamo anche desiderio”, sembrano aggiungere le stesse. Sì, perché da questo radicamento nell’essere parte uno slancio di aspirazione che testimonia una mancanza e una nostalgia, come ben visibile in “Torsione” del 2006. Di cosa? Di amore e affezione a quell’Essere stesso, di essere amati, di famigliarità e di compagnia con Lui. Sì, perché, alcune delle opere di Paola sono anche esplicitamente cristiane, come la tenerissima e belliniana “Madonna con il bambino alla finestra”. Nelle opere cristiane di Paola Ceccarelli si percepisce la profonda tenerezza dell’incarnazione, in cui l’Essere condivide con l’uomo tutto, a cominciare dal suo limite, cioè la sua condizione di materialità (la “terra”).
Ma tutto questo non sarebbe potuto accadere senza il “sì” di una giovane donna ebrea di nome Maria, senza cioè la disponibilità semplice a diventare “grembo” materno e femminile di questo Essere. Se le opere di Mazzotta parlano dell’uomo, anche nel suo aspetto mascolino, in quelle di Paola emerge dominante la “Femminilità”, intesa come maternità e generatività, ma soprattutto come accoglienza, disponibilità e offerta di sé al Mistero. “Vuestra soy, para vos nacì. Que mandais hacer de mì?” (Sono tua e sono nata per te. Cosa comandi far di me?): questa bellissima poesia di Santa Teresa d’Avila bene esprime questa disponibilità al Mistero che si presenta, come ad esempio nei commoventi “stupore tu” e “stupore io” e nella bellisima “Annunciazione” riportata in fotografia. Ecco allora il punto generativo di tutte le opere “grembo” di Paola Ceccarelli: dalle donne “vortice” e “vuoto” che si fanno vuoto grembo per accogliere l’essere; dalla grotta fatta di angeli fino alla dolcissima “Europa” che è gravida di speranza pur nel dolore su cui si fonda.
Non può, infatti, mancare nella grande esperienza di umanità che è l’opera di Paola, questa ferita del dolore, come appare in “risacca” e “mani”; oppure, molto intensamente in “mater dolorosa” che, nella forma vista a Loreto nel 2007, nell’ambito della Esposizione sulla Croce, esprime in modo sublime il dolore delle donne che subiscono lutti e violenze nelle martoriate regioni mediorientali. Il dolore come compagno inevitabile della modernità che non sa rinunciare alla violenza da cui è stata partorita.
Come nella “battaglia di Lepanto” di Mazzotta la Madonna interviene per portare tutti a sé, così anche nelle sculture di Paola viene l’aiuto verso la precarietà della condizione dell’uomo come si vede bene nella “Cattedrale” e in tutte le “donne-fiore” che, in realtà, non sono altro che mistici fiori che, inglobando il figlio nel “calice” del fiore, rappresentano il perdono e la misericordia del mistero verso la miseria umana e verso i nostri limiti.
Quale risposta, unica sensata, a tale perdono? Lo sguardo pieno di attesa positiva e di speranza di “stupore tu” e l’abbraccio pieno di profonda affezione di “Io sono Tu che mi fai”, vere icone del nostro stesso Destino, se sappiamo apprendere il segreto messaggio di queste opere, sempre che decidiamo, per il nostre bene, di andarle a vedere.

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