A completamento di questa riflessione sullo scritto di S., presento alcune idee su Palladio che confermano le intuizioni della studentessa sul Teatro Olimpico. Quello che lei scrive su di esso è un meraviglioso esempio di “esperienza percettiva”. Qualche anno fa ho partecipato ad un Master in Architettura e Arti Sacre nel quale ho imparato la tecnica dell’esperienza percettiva. Poi, ho cercato di applicarla a scuola e con una classe abbiamo studiato le più importanti ville del Palladio, cominciando proprio dall’esperienza percettiva degli studenti. In cosa consiste? “Esattamente, come hai fatto tu, nel descrivere le emozioni che si provano di fronte, o dentro, in questo caso, l’opera d’arte, cioè lo spazio architettonico della villa o del Teatro Olimpico. Questa ricerca è stata preceduta da un mio studio sui fondamenti dell’architettura palladiana, che qui presento”. (Giulio Zennaro, 12-13 novembre 2021)
Lo spazio integrato
La prima chiave di lettura dell’architettura di Palladio è “lo spazio integrato”, cioè l’unità delle parti tra loro e nel loro rapporto con il tutto, quindi simmetria, proporzione, gerarchizzazione e biomorfismo degli edifici palladiani. Ne consegue una profonda unità del modello architettonico che è la caratteristica che maggiormente e prima di tutte salta agli occhi nelle opere di Palladio. Egli stesso afferma che l’edificio deve essere caratterizzato da “razionalità di struttura e funzionalità di disposizione” in quanto deve essere rispettoso nella naturalezza dell’abitare, per cui la dimora dell’uomo deve inserirsi nella natura e rispettarne i fattori. (J. S. Ackerman, Palladio, Einaudi, Torino 1972 e 2000, p. 78)

Una parte degli studenti in visita al Teatro Olimpico
“Dalla sua formazione umanistica Palladio aveva appreso che il supremo ordine razionale che permea la creazione divina dev’essere imitato nelle creazioni dell’uomo e che quest’imitazione della natura, lungi dall’essere una riproduzione della realtà circostante, è invece una ricerca di principi astratti”. (Ibidem)
I principi astratti sono per Palladio i fattori costitutivi della naturalità delle cose in rapporto all’uomo, sono i principi della realtà in rapporto alla razionalità umana, cioè in quanto colti presenti nella natura e riconosciuti dalla razionalità umana. E’ importante comprendere questo, perché Palladio, come ha riconosciuto Goethe, asseconda la realtà e ne riconosce la razionalità intrinseca e profonda, pur non limitandosi a imitarla pedissequamente, bensì creando veramente qualcosa di nuovo. Egli riconosce in questa natura “la creazione divina”, proprio perché ha uno sguardo d’artista pronto a cogliere nella realtà l’impronta del Creatore, cioè la profonda razionalità del reale.
Questa integralità dei fattori spinge Palladio a progettare uno spazio quanto mai ordinato e razionale, funzionale e adeguato alle esigenze concrete dell’abitare umanamente dignitoso. L’unità del modello architettonico è data da diversi elementi che concorrono alla generazione di uno spazio unitario. L’estetica palladiana è fondata sulla proporzione e sul rapporto organico delle parti: la struttura delle ville è rigorosamente triadica “con un corpo centrale disposto sull’asse d’ingresso e due corpi laterali simmetrici”. (J. S. Ackerman, op. cit., p. 78)
Tra i corpi intercorre un rigoroso rapporto di connessione organica: “Palladio teneva conto di tutti i rapporti tra larghezze, profondità e altezze, nel corpo centrale come in quelli laterali, nell’interrelazione tra i vari corpi e l’insieme, in pianta come nei prospetti; la sua architettura è retta cioè da una rigorosa interconnessione di tipo organico”. La quale non poteva non derivare che da un attento sguardo alla realtà e all’organizzazione biomorfica dei suoi componenti viventi: l’occhio di Palladio era appassionato della realtà e ne rispettava la struttura. “Nel caso di palazzo Chiericati, l’edificio è biomorfico: anche il corpo umano è simmetrico rispetto ad un solo asse e mentre le parti disposte su quest’asse sono singole, come il naso e la bocca, quelle laterali sono doppie, come gli occhi e le braccia. Queste analogie con il corpo umano venivano formulate contemporaneamente anche da Michelangelo…; ma il naturalismo di Michelangelo era rigorosamente biomorfico e alieno da astrazioni matematiche”. (Ivi, p. 82)
Il biomorfismo di Palladio era caratterizzato da una grande attenzione alla proporzione matematica, intesa come misura dell’armonia e dell’ordine presente nel cosmo e nella realtà, impostazione questa di tipo pitagorico e platonico. Palladio aveva mutuato queste idee e le condivideva, oltre che con Daniele Barbaro nel suo commento a Vitruvio, con Silvio Belli che nel 1573 aveva pubblicato un Della Proportione et Proportionalità. In questo libro Belli “parla della proporzione come di una virtù cardinale, come della vera fonte di un’esatta distribuzione e di una sana bellezza. Quest’ultima è menzionata in quanto corrispondenza di tutte le parti disposte nel modo più appropriato, ossia come un aspetto della proporzione”. (Ivi, p. 79)
Una esemplificazione particolarmente importante e pregnante di conseguenze di questa idea di proporzionalità è “il fatto che gli equivalenti numerici delle relazioni costituenti le armonie musicali potessero, una volta applicati ai rapporti spaziali dell’architettura, generare armonie visive”; (Ivi, p. 80) confermate dalle sperimentazioni eseguite in sito nelle chiese palladiane dall’équipe del prof. Antonio Lovato, Docente di Musicologia all’Università di Padova. La dimensione acustica, quindi, deriva la sua efficacia proprio dal rispetto delle proporzioni matematiche. Inoltre, come sottolinea Ackerman, il sistema triadico “era avvalorato dalla funzionalità e dalla tradizione della tipica casa veneziana… Palladio ratifica esplicitamente questa tradizione”. (Ibidem)
“Negli edifici palladiani vige una gerarchia delle parti: essi sono scompartiti, in pianta e in prospetto, in un numero dispari di corpi verticali, in modo che il corpo centrale predomini su quelli laterali e rappresenti il culmine della composizione. Analogamente, le parti prossime al centro, sono più importanti, per dimensione e funzione, di quelle lontane”. (J. S. Ackerman, op. cit., p. 86) La gerarchia è un principio essenziale della realtà, intuito già da Platone (che attribuisce all’uomo il compito di dare i nomi alle cose e che gerarchizza il mondo sulla base della gerarchia delle Idee), ma confermato sia dalla tradizione biblica (i giorni della creazione determinano una naturale gerarchia ascendente delle creature fino all’uomo) che quella aristotelica (che struttura in tre regni gerarchizzati tutti gli esseri viventi).
Sia l’Umanesimo che il Rinascimento non hanno fatto che confermare il principio gerarchico (Cusano, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola parlano del cosmo come di una realtà gerarchicamente organizzata: ma era stato Dante che aveva sintetizzato questa fondamentale concezione in una terzina di stupefacente bellezza: “La gloria di Colui che tutto move \ per l’universo penetra e risplende \ in una parte più e meno altrove”. (Dante Alighieri, Paradiso, I, 1-3) La natura delle cose, quindi, non è caotica, proprio perché creata con un principio gerarchico ordinatore, e così anche la dimora umana che di quella natura imita la dimensione di ospitalità. Ackerman sintetizza, quindi, magistralmente la concezione dello spazio architettonico con tre principi che appaiono in piena sintonia con la concezione pareysoniana dell’edificio, inteso come unità delle parti nel tutto: “1. Gerarchia, cioè sistematico ‘crescendo’ dalle parti subordinate dell’edificio fino a un centro focale. 2. Integrazione, mediante la proporzionalità e in tre dimensioni, delle parti fra loro e col tutto. 3. Coordinamento tra esterni e interni mediante la proiezione dell’organismo interno sulle facciate e l’uso costante del sistema proporzionale”. (J. S. Ackerman, op. cit., p. 96)
La relazione con il tutto, il rapporto con l’ambiente
La seconda chiave di lettura è la relazione della dimora con l’ambiente, con la città e con il cosmo o genius loci, in quanto le opere palladiane sono in un costante rapporto con tutta la realtà circostante, naturale e antropica. La gerarchia, l’integrazione e il coordinamento delle parti tra loro e in rapporto al tutto in Palladio diventano anche relazione con l’ambiente circostante e, ultimamente, con il cosmo stesso. La casa-villa del Palladio riassume in sé il “genius loci”. L’esempio più emblematico di questo rapporto dell’edificio palladiano con l’ambiente è la Villa Almerico-Capra, detta “La Rotonda” a Vicenza, sui Colli Berici: “Essa sembra emergere notevolmente dal paesaggio: le facciate sui quattro lati, tutte ugualmente adornate da un portico, riprendono con le gradinate la pendenza della collina e la cupola centrale deve essere intesa come un rialzo del culmine della collina stessa. E’ questa costruzione a coronare la collina, oppure è la collina che si innalza per mezzo dell’edificio?”. (P. Marton – M. Wundram – T. Pape, Palladio. Tutte le opera, Taschen, Colonia 2008, p. 186)
Lo stesso Palladio, nei Quattro libri dell’Architettura, sottolinea lo stretto rapporto della villa con l’ambiente circostante: “Il posto è ben situato ed è uno dei più belli e piacevoli che si possano trovare, poiché si trova sul sommo di una collina, al quale si accede facilmente. Intorno a esso si estendono dolci colline che offrono la vista di un grande anfiteatro (…); e poiché da tutti e quattro i lati si gode di una vista bellissima, furono erette logge su tutte le facciate”. La villa è stata definita in un modo che ci sembra quanto mai esemplificativo del discorso che stiamo facendo: “forma formata dal paesaggio e formante il paesaggio”. (Cit. in ibidem) Il testo originale recita così: “Il sito è de gli ameni e dilettevoli che si possono ritrovare perché è sopra un monticello di ascesa facilissima ed è da una parte bagnato dal Bacchiglione fiume navigabile e dall’altro è circondato da altri amenissimi colli che rendono l’aspetto di un molto grande Theatro, e sono tutti coltivati et abondanti di frutti eccellentissimi e di buonissime viti: onde perché gode da ogni parte di bellissime viste… vi sono state fatte le loggie in tutte quattro le faccie”.
E’ unanimemente ritenuta il capolavoro dell’arte architettonica del Palladio, al punto da fare esclamare Wolfgang Goethe: “Forse mai l’arte architettonica ha raggiunto un tal grado di magnificenza”. (Cit. in Ibidem) Essa assurge universalmente a simbolo della stessa essenza, quasi metafisica, della visione architettonica palladiana: “libera da condizionamenti rispetto a quanto solitamente doveva costituire la parte feriale e aziendale delle ville, si trasforma al tempo stesso in un puro messaggio teorico e in una totale identificazione e coincidenza di un’architettura con l’anima e il carattere di un paesaggio e di una cultura, una sorta di tridimensionale quadrante di bussola o di concentrato di sapere e meditazione storico-archeologica e di clamorosa novità di scrittura e di proposta culturale”. (G. Romanelli, op. cit., p. 28)
Essa è l’unica delle ville palladiane che abbia una simmetria radiale: grazie a ciò la Rotonda è l’unica villa palladiana che abbia “un aspetto gradevole da tutti i possibili punti di vista, su un arco di 360°”. (J. S. Ackerman, op. cit., p. 87) “Girando attorno alla villa ad ogni lato si ripete la sorpresa del pronao ionico esastilo, proteso con l’alta scalinata verso il paesaggio, che ora declina dolcemente verso il fiume (ahimè non più navigabile!) e la pianura, ora si inoltra in un folto boschetto e nella valletta detta del Silenzio. Quattro volte si ripete l’invito ad entrare; e una volta dentro la sala circolare cupolata, che è il cuore della villa, il richiamo si ripete in senso contrario e si è attirati nuovamente verso l’esterno attraverso uno qualsiasi dei quattro corridoi che, come bracci di una croce greca, dividono con cristallina geometria il prisma cubico della scatola muraria in quattro settori angolari e riconducono alle logge, alle scale, alla natura. E nemmeno se a metà di un corridoio deviamo verso i camerini e le stanze d’angolo sfuggiamo a tale richiamo perché ad ogni porta che imbocchiamo ci troviamo di fronte uno scorcio di paesaggio inquadrato da una finestra”. (D. Battilotti, ivi)
La villa non era vincolata ai lavori agricoli, ma non era nemmeno una “villa belvedere” destinata unicamente alla “villeggiatura”: essa doveva diventare sia nelle intenzioni del committente sia nella esecuzione del Palladio “un vero e proprio tempio dell’otium umanistico”. E’ il Rinascimento stesso che vibra nella committenza della Rotonda, una sintesi di amore per la Romanità e di novità di stile che si respirava in quell’ambiente. Si vuole sì prendere ispirazione dagli antichi, ma per superarli e per osare qualcosa di nuovo, di inaudito e mai visto creando un rapporto totale con lo spazio circostante e con il cosmo stesso e una costruzione che fosse in se stessa un micro-cosmo, luogo ideale e simbolico dell’essenza stessa dell’Umanista e della sua epoca tardo-rinascimentale. Elemento assolutamente innovatore nel panorama delle ville palladiane è la cupola: nel disegno originario doveva essere perfettamente emisferica e coronata da una lanterna, mentre nella realtà è costituita da fasce a scalare. La cupola ha un forte simbolismo cosmologico e rappresenta la volta del cielo e, quindi, Dio: è anche un elemento di forte classicità: addirittura si pensa che la cupola fosse aperta come quella del Pantheon e che l’acqua piovana si raccogliesse nell’impluvium che sottostà al “traforo sistemato al centro del pavimento e ornato dalla testa di un fauno”.(Ivi, p. 127) La forma sferica della cupola si intreccia con il cubo ideale costituito dall’edificio, dalla base fino al sommo della cupola, esclusa la lanterna; a questo si aggiunge la pianta perfettamente quadrata, con quattro bracci a croce greca, costituiti dai quattro pronai: il quadrato, il cubo, la croce e la sfera si intrecciano fortemente in modo fortemente simbolico ed allusivo.
Quale è il significato di questa scelta formale? E’ un significato innanzitutto cosmologico, accentuato anche dal fatto che la villa è orientata esattamente secondo i quattro punti cardinali: la terra (cubo e quadrato) si intreccia entra in una relazione forte con il cielo. L’uomo che abita la villa si sente veramente, come diceva Marsilio Ficino, copula mundi, elemento unificatore del mondo, cerniera tra cielo e terra. Non solo perché la villa si proietta realisticamente nell’ambiente e si relaziona intensamente con esso dal punto di vista volumetrico (si confonde con la collina) e visivo, ma anche perché nel simbolismo della sua struttura rappresenta il cosmo nella sua totalità. L’edificio, quindi, ricorda a chi la abita, ai suoi ospiti e ai passanti, la dignità dell’uomo così come era concepita dai rinascimentali e la sua responsabilità all’interno del creato: elevare la terra al cielo e portare alla terra il divino. Così il senso della villa, da umanistico e cosmico, si fa intensamente religioso; riprendendo il tema del tempio greco e romano, Palladio crea quattro logge esastile di stile ionico con frontoni; altri elementi del tempio antico, soprattutto romano, sono la cupola e la scala che eleva tutta la costruzione al di sopra del piano. Questo elemento della religiosità antica viene innestato nella struttura abitativa nobiliare e costituisce la grande innovazione e la genialità architettonica di Palladio: in più nella Rotonda, si inserisce anche un altro elemento religioso e cristiano, la pianta a croce greca.
Perché questa ripresa di elementi dell’architettura religiosa pre-cristiana e cristiana e il loro inserimento in un contesto abitativo laico? Potremmo dire perché Palladio ha un concetto poetico dello spazio. Egli concepisce lo spazio come la dimora dell’uomo che riconosce e attribuisce il significato dello spazio e del tempo e stabilisce in esso la sua dimora. All’interno dello spazio e del tempo l’uomo costruisce delle dimore, che hanno il compito di permettere all’uomo di raccogliersi in se stesso e di raccogliere e sintetizzare tutto il significato dello spazio, tutto il rapporto tra sé e l’ambiente circostante. Nella dimora, la casa, l’uomo trova il senso della propria interiorità, ma anche del rapporto con gli altri, con l’altro (l’ospitalità, l’accoglienza, ad esempio, in una dimora di villeggiatura, di amici, il suo valore di rappresentanza e di visibilità di sé e del valore della propria famiglia) e con il tutto (il significato cosmico e il rapporto con l’ambiente circostante).
Nella Rotonda sono presenti alcuni particolari che confermano queste riflessioni: “tra gli esuberanti stucchi del soffitto è raffigurata al centro una figura bianca con un serpente che si morde la coda, simbolo dell’eternità assieme alle tre Grazie, mentre attorno si dispongono sei tondi con le Arti e due rettangoli con Minerva a Vulcano. Nel soprapporta si trova un quadro con il presunto ritratto del Palladio con sul fondo la Rotonda”. (D. Battilotti, Le ville di Palladio, op. cit., pp. 128-129) L’arte come nostalgia di eternità e come possibilità per l’artista che ne è protagonista di mettersi in rapporto con il Mistero dell’Essere!
“Commodità”
La terza chiave di lettura è la funzionalità dell’opera che, nel caso delle ville, è sostanzialmente di tre tipi: agricola, casa di villeggiatura e di rappresentanza, con l’eccezione straordinaria della Villa Almerico-Capra che è un locus tipicamente umanistico-rinascimentale. La villa deve essere commisurata agli usi pratici determinati dalla committenza, sia che questa esiga una costruzione di rappresentanza, come Villa Pisani a Montagnana, sia che esiga una dimora di ozio culturale, come la Rotonda e la Barbaro a Maser, sia che l’esigenza sia quella del lavoro agricolo e la villa sia in realtà il luogo della coabitazione di un nobile con la sua azienda. E’ un aspetto e una conseguenza molto concreta di quell’attenzione per l’uomo che caratterizzava la cultura di Palladio. “E una sorta di silenziosa rivoluzione per il territorio veneto quella che si compie verso la metà del Cinquecento e che vede lo stato affiancarsi all’iniziativa privata in grandi opere di bonifica di quei possedimenti paludosi e improduttivi e nell’introduzione di nuovi e più razionali metodi di coltivazione.
Operazione che verrà istituzionalizzata nel 1556 con la creazione della Magistratura dei Beni Inculti e che ebbe il suo più tenace promotore nel nobile Alvise Cornaro che additò appunto nel possesso della terra e nell’esercizio della “santa agricoltura” la via da seguire per dare nuovo impulso a Venezia. L’esito più vistoso del fenomeno ora delineato, di questa sorta di rifeudalizzazione, è rappresentato dal proliferare delle abitazioni di villa, necessarie infrastrutture per permettere al signore di seguire da vicino i suoi possedimenti. Non che prima non esistessero ville nel Veneto, sia chiaro, ma la loro funzione primaria era legata principalmente alla villeggiatura del cittadino in campagna per potervi consumare giornate d’ozio e di riposo fuori del contesto urbano. E’ questo un tipo di villa che aveva avuto precedenti illustri, a cominciare dalla residenza del Petrarca ad Arquà, fino al più recente Barco di Caterina Cornaro ad Altivole, e che continuerà ad avere vita autonoma (si pensi alle palladiane Rotonda o alla Malcontenta); ma ora alle esigenze di svago si aggiungono, altrettanto importanti, quelle funzionali e si richiedono quindi soluzioni tipologiche diverse.
Ed è a questo punto che entra in scena Andrea Palladio, a raccogliere e ad unire tutte queste istanze. La sua ricerca non nasce naturalmente dal nulla; affonda le radici in precedenti esperienze ed è indirizzata dagli insegnamenti di Giangiorgio Trissino e soprattutto di Alvise Cornaro. Ma il risultato finale appartiene interamente al suo genio. Egli inventa un nuovo tipo di villa in cui la funzione agricola è integrata con la funzione aristocratica della vecchia villa: a Villa Angarano, ad esempio, per la prima volta in modo evidente, i rustici sono uniti alla corte del signore senza cesura abitativa, “saldando così in una compiuta sintesi figurativa, altre che fisica, il momento funzionale della gestione agricola e quello dello svago e dell’autocelebrazione aristocratica del proprietario. Questo tipo di villa-fattoria, vero specchio degli ideali del tempo e che raggiunge i livelli qualitativamente più alti nella Badoera a Fratta Polesine e nella Emo di Fanzolo – tra quelle interamente eseguite -, si configura così come una sorta di “città piccola”. Ne è cuore ovviamente la casa tempio del gentiluomo, esaltata dall’ampia scala, sigillata dal frontone retto dal colonnato della loggia e riccamente affrescata all’interno; mentre ai suoi lati, in posizione subordinata ma tutt’altro che emarginata, si dipartono i portici – ora rettilinei, ora ad angolo retto, ora ad emiciclo – delle barchesse che come braccia si distendono nel paesaggio circostante, sigillate spesso da torri colombare. Al riparo di essi il padrone può così sorvegliare le molteplici attività dei contadini che gravitano attorno alla sua dimora, abitando nelle case sparse nella proprietà, controllare i raccolti, le stalle, gli attrezzi. I vari elementi di questa “città piccola” sono legati tra di loro dal comune linguaggio classico e si dispongono secondo una precisa gerarchia. Solo nel caso della purtroppo scomparsa villa Repeta a Campiglia dei Berici (1557-1558 circa) questi elementi risultano posti tutti su uno stesso piano, senza nessuna differenziazione tra i servizi e l’abitazione del signore, in accordo con le particolari convinzioni del committente, legato ai circoli anabattisti vicentini”. (D. Battilotti, Le ville di Palladio, op. cit., pp. 11-20, passim)
“Perpetuità”
La quarta chiave di lettura dell’opera palladiana è il rapporto con il modello classico, che in Palladio è ispirativo ma mai ripetitivo: esso è sempre spunto di innovazione e originalità, mai di manierismo. L’edificio deve aspirare all’immortalità, come quella sete di sfidare il tempo e di vivere eternamente che c’è nell’uomo che lo abita. Egli è fatto per l’eterno e la casa ne è l’emblema, la rappresentazione del bisogno di non morire che c’è nell’uomo, insieme alla sua mortalità, come sottolineava Heidegger. Questo desiderio di dare alle proprie costruzioni una dimensione di eterno, spinse Palladio a cercare nell’antico, non tanto modelli da imitare, come spesso si crede, ma forme che rappresentassero realizzato quel desiderio di immortalità. Palladio non cercava di ripetere ma cercava delle forme vive: “L’architettura di Palladio può chiamarsi “classica”? Se questo attributo significa ‘nello spirito degli antichi greci e romani’, esso è applicabile solo ad alcune opere come il Teatro Olimpico, e anche a queste in modo approssimativo. Palladio amava i ruderi ma – come in genere accade agli innamorati – vedeva in essi solo ciò che desiderava vedere, a modo suo”. (J. S. Ackerman, op. cit., p. 96)
Da innamorato Palladio cercava nel passato la vita, cercava quello che gli interessava: forme vive. Egli recupera due tipi di edifici, le terme e il tempio di Preneste: egli prende dalla classicità non forme compiute, ma spunti, che porterà a compimento con la sua poetica dello spazio, con la sua particolare concezione di ordine e con la sua potente energia di vita e di creazione. Come gli innamorati vedono spesso quello che vogliono vedere: questo Palladio ha visto nell’antichità una possibilità di ordine, una integrazione dello spazio, una razionalità compositiva, una simmetria, una simbologia cosmica, una gerarchia, una organicità. Ma Palladio ha trovato nella classicità solo degli spunti, non delle soluzioni, non dei modelli: “Gli insegnamenti tratti dai romani furono solo uno stimolo a formulare certi principi che non emergevano dall’architettura classica”. (Ibidem)
Questo, che è molto vicino a ciò che teorizza Pareyson a proposito dell’imitazione e dello spunto: è possibile perché Palladio aveva un rapporto di contemporaneità con il passato e il suo amore archeologico è la ricerca di nessi vivi con il passato, in quanto è la ricerca di significati e forme universali ed eterne: ma non di idee astratte o di modelli iperuranici. Egli vedeva da innamorato ciò che vedeva in se stesso: riconosceva negli antichi le stesse aspirazioni e gli stessi desideri che vedeva in sé stesso. Non è un’operazione intellettuale come alcuni studiosi credono, non è un’operazione ideologica: Palladio ha vissuto dentro di sé delle esigenze, ha portato con sé delle domande e le ha rivolte con coraggio e semplicità agli uomini del passato e alle loro opere. Non le ha imitate pedissequamente, ma ha cercato di capire e di immedesimarsi nel loro spirito, cercando di cogliere ciò che le rendeva grandi, ciò che le rendeva immortali, vale a dire l’aspettativa struggente di una risposta, di una pienezza, di una Totalità: insomma il loro rapporto, spesso confuso e incerto, con il Mistero dell’Essere.
Solo chi aveva del passato questo tipo di rispetto e di ammirazione poteva creare delle cose non ripetitive, non stucchevoli e poteva creare uno stile e un metodo che ha fatto scuola per quattro secoli e che ancora oggi ci sorprende e ammiriamo in tutto il mondo. Come si può, dopo due secoli di classicismo, a partire da Petrarca, proporre facciate moderne con templi antichi come modelli? Come poté non essere sentita come già vecchia in partenza questa operazione? E’ perché non cercava modelli da imitare, come spesso erroneamente si dice, ma cercava ciò che rendeva gli antichi eternamente e universalmente capaci di parlare al cuore dell’uomo e li interrogava con le domande presenti nel suo cuore: e trovava lo stesso struggente desiderio di bellezza e di grandezza. E’ questo che ha reso grande Palladio: la sua capacità di far rivivere gli antichi attraverso il suo desiderio di vita, trasferito nella concezione dello spazio e della bellezza architettonica. Ed è per questo che è capace di parlare a tutte le generazioni, anche a noi moderni.
“Bellezza”
La quinta chiave di lettura è la forma, razionale e “sensitiva” nello stesso tempo, come hanno sottolineato Ackerman e Puppi, che conferisce alle opere di Palladio una bellezza unica, che sfida il tempo e che si è diffusa in tutto il mondo. La bellezza che cercava Palladio è forma, svelamento della verità dell’Essere, come dice Heidegger; e come dice San Tommaso: “la bellezza è lo splendore della verità”. La bellezza è il riverbero della razionalità che è presente nel cosmo, la geometria presente nei rapporti e nelle proporzioni, come pitagoricamente professato da Vitruvio e teorizzato da Platone nel Timeo.
L’architettura carpisce questa misura e questo ordine profondi e li traduce nella pietra, nello spazio, nella luce. Palladio è un grande Maestro del segno: il suo segno grafico nei Quattro libri è pulito e rigoroso, razionale e netto, pienamente al servizio della forma architettonica. Questa purezza e perfezione è stata interpretata come una freddezza e astrattezza, tutte frutto di razionalità e di mancanza di cuore, di passione. Il prof. Puppi, uno dei più grandi conoscitori di Palladio, in una sua conferenza, ha invece sottolineato che non c’è solo il Palladio dei Quattro Libri, ma c’è un Palladio nascosto e che non si vuole rivelare nei documenti, come se avesse voluto dare solo quella immagine pura e perfetta di sé, e che si ritrova invece andando dentro alle sue ville, alle sue costruzioni.
E’ un Palladio della passione e del sentimento, che parla attraverso la luce e il colore, ma che non si percepisce più perché velato e nascosto dall’altro Palladio ufficiale. Questa interpretazione, che per un attimo ci ha lasciati stupiti e perplessi, ci ha messo non poco in discussione, lasciando una grossa domanda in noi su quale fosse il vero Palladio. Ackerman ci ha indicato la strada per trovare la risposta: il classicismo di Palladio è sui generis, non coincide con quello di Raffaello o Sansovino, che realizzarono uno stile dove la razionalità e l’organizzazione formale prevalevano sui sensi, come sembra prevalere nei Quattro Libri.
“Ma c’è un altro Palladio sconosciuto a molti classicisti che venerarono i suoi scritti senza mai recarsi nel Veneto: ed è il mago della luce e del colore, il Veronese dell’Architettura. Palladio era un artista sensuale, altrettanto esperto nell’alchimia della visione quanto qualsiasi pittore veneziano del suo tempo. Gli piaceva modulare la luce, e introdusse nell’architettura valori coloristici e di superficie del tutto nuovi, oppure usò in combinazioni inedite quelli già noti. E’ stata questa sintesi di elementi sensuali e intellettuali a rendere Palladio così caro a tante generazioni e a tipi così diversi di occidentali, a differenza di classicisti puri come Raffaello o di puristi sensuali come il Veronese”.
L’illustre critico dà anche la spiegazione più chiara ed esauriente di questa apparente dicotomia in Palladio: “Dal Romanticismo in poi, intelletto e senso sono stati contrapposti fino al punto che l’uno sembra escludere l’altro: i classicisti sono intesi come puramente razionali e i romantici come puramente sensuali o emotivi. Ma i critici migliori di Palladio sono stati quelli che, più vicini a lui nel tempo, erano meglio disposti ad accettare la complessità della sua opera: emerge tra loro l’artista più fervido e più «classico» del Seicento veneziano, Baldassarre Longhena. Mentre Venezia continuò per secoli a vivere nell’incantesimo dell’architettura palladiana, nel resto d’Europa si ebbe nel secolo XVIII una reazione puristica contro gli eccessi e il preziosismo dell’architettura tardo barocca e rococò. I riformatori dell’età dei lumi compresero solo il Palladio razionalista dei Quattro libri e dei disegni (questi ultimi finiti per caso in Inghilterra, dove l’interesse per Palladio fu più vivo e fecondo che altrove), ma ben di rado ebbero una conoscenza diretta delle sue opere. Le più imitate fra queste, le ville, erano difficilmente accessibili, del resto i seguaci di Palladio procuravano di eliminare proprio quelle qualità per cui gli edifici costruiti si distinguevano dalle loro riproduzioni grafiche. Il solo critico sensibile e congeniale di Palladio nel Settecento fu un uomo in cui senso e intelletto erano associati in grado sublime: Goethe”. (J. S. Ackerman, op. cit., p. 97-98
In realtà, quindi, non si tratta di un doppio Palladio: egli è uno solo, un uomo vero, unito, che viveva profondamente la sua dimensione razionale e la sua dimensione sensibile. Era semplicemente un uomo grande, perché in lui sentimento e ragione erano uniti, erano tutt’uno. Ecco perché le sue opere appaiono così grandi, belle, eterne: perché costituiscono dimore per una vita autenticamente umana, che non è scissa tra sentimento e ragione, tra fede e realtà, tra affezione e razionalità, tra cuore e intelletto. E’ sembrato diviso solo a chi è già diviso, solo a chi ha già separato ragione e sentimento: è sembrato diviso e alternativo a chi ha opposto la ragione alla realtà, imponendo ad essa le lenti deformanti dell’ideologia. Invece, Palladio ascoltava le esigenze del suo cuore esattamente come accoglieva l’inclinazione all’ordine della sua razionalità: per lui la vera bellezza non è conflittuale, non pone alternativa tra sentire e capire, per lui la bellezza è sintetica.
È forza unificante tra le due dimensioni fondamentali dell’essere umano. Ackerman, parlando degli schizzi eseguiti sulle rovine e sugli scavi delle Terme di Caracalla, dice di Palladio: “Più che avanzare ipotesi sul metodo compositivo del progettista antico, egli descrive qui la sua esperienza del trovarsi all’interno dell’edificio”: (Ivi, p. 90) esperienza poi utilizzata nei suoi progetti. E’ da una esperienza che nasceva l’opera architettonica palladiana: egli “viveva” lo spazio e la forma nasceva da una unità del suo essere all’interno di una esperienza. Non nasceva da una divisione ma da una unità tra la razionalità che dava l’equilibrio e la sensibilità che infondeva calore, forza ed energia attraverso il colore e la luce: queste due sorgenti in lui erano riunite. Dalle facoltà (sentimento e ragione) unite nell’umano nasce anche un’opera d’arte unitaria e integrale che vive tanto nei Quattro Libri quanto nelle sue ville, pur nella diversa modalità di comunicarsi. Sta a noi cogliere questa unitarietà e attingere alla ricchezza di forza e di equilibrio, di passione e di armonia che le sue opere sanno trasmettere: bisogna mettersi in sintonia e lasciarsi provocare con semplicità dalla grandezza di questo spazio architettonico, dobbiamo liberarci dai pregiudizi e dai filtri ideologici, dobbiamo lasciare respirare la nostra umanità e metterci in sintonia con quella di Palladio. Scopriremo che la bellezza delle dimore disegnate da Palladio deriva dalla sua libertà di creare forme che parlano del Mistero, di poetare: cioè di dimorare nell’abbraccio dell’Essere, di cui l’architettura è il linguaggio forse più suggestivo e affascinante per il confuso uomo di oggi.
Queste cinque chiavi di lettura sono le coordinate di una concezione dello spazio architettonico e dell’abitare che ha avuto un grandissimo successo e che si è imposto universalmente per diversi secoli in tutta Europa, che è riconosciuto come “palladianesimo” e che è stato indicato nel Ciclo di Incontri in Università, appunto, con il termine di “bella geometria per l’uomo”. E’ un concetto di spazio architettonico aperto a tutti i fattori dell’esperienza umana, da quelli dell’esperienza percettiva, a quelli dell’esperienza razionale, a quelli dell’esperienza emotiva e del sentimento. L’arte architettonica di Andrea Palladio rappresenta una lezione, attualissima anche per l’oggi, di un modo di concepire l’abitare dell’uomo secondo l’integralità dei fattori costitutivi di uno spazio abitabile, perché portatore di uno sguardo simpatetico sulle esigenze originarie dell’uomo, come è testimoniato nelle espressioni più autentiche del Rinascimento.