La “bella geometria” di Andrea Palladio, tra le vette più eccelse del classicismo

A completamento di questa riflessione sullo scritto di S., presento alcune idee su Palladio che confermano le intuizioni della studentessa sul Teatro Olimpico. Quello che lei scrive su di esso è un meraviglioso esempio di “esperienza percettiva”. Qualche anno fa ho partecipato ad un Master in Architettura e Arti Sacre nel quale ho imparato la tecnica dell’esperienza percettiva. Poi, ho cercato di applicarla a scuola e con una classe abbiamo studiato le più importanti ville del Palladio, cominciando proprio dall’esperienza percettiva degli studenti. In cosa consiste? “Esattamente, come hai fatto tu, nel descrivere le emozioni che si provano di fronte, o dentro, in questo caso, l’opera d’arte, cioè lo spazio architettonico della villa o del Teatro Olimpico. Questa ricerca è stata preceduta da un mio studio sui fondamenti dell’architettura palladiana, che qui presento”. (Giulio Zennaro, 12-13 novembre 2021)

Lo spazio integrato

La prima chiave di lettura dell’architettura di Palladio è “lo spazio integrato”, cioè l’unità delle parti tra loro e nel loro rapporto con il tutto, quindi simmetria, proporzione, gerarchizzazione e biomorfismo degli edifici palladiani. Ne consegue una profonda unità del modello architettonico che è la caratteristica che maggiormente e prima di tutte salta agli occhi nelle opere di Palladio. Egli stesso afferma che l’edificio deve essere caratterizzato da “razionalità di struttura e funzionalità di disposizione” in quanto deve essere rispettoso nella naturalezza dell’abitare, per cui la dimora dell’uomo deve inserirsi nella natura e rispettarne i fattori. (J. S. Ackerman, Palladio, Einaudi, Torino 1972 e 2000, p. 78)

Una parte degli studenti in visita al Teatro Olimpico

“Dalla sua formazione umanistica Palladio aveva appreso che il supremo ordine razionale che permea la creazione divina dev’essere imitato nelle creazioni dell’uomo e che quest’imitazione della natura, lungi dall’essere una riproduzione della realtà circostante, è invece una ricerca di principi astratti”.  (Ibidem)

I principi astratti sono per Palladio i fattori costitutivi della naturalità delle cose in rapporto all’uomo, sono i principi della realtà in rapporto alla razionalità umana, cioè in quanto colti presenti nella natura e riconosciuti dalla razionalità umana. E’ importante comprendere questo, perché Palladio, come ha riconosciuto Goethe, asseconda la realtà e ne riconosce la razionalità intrinseca e profonda, pur non limitandosi a imitarla pedissequamente, bensì creando veramente qualcosa di nuovo. Egli riconosce in questa natura “la creazione divina”, proprio perché ha uno sguardo d’artista pronto a cogliere nella realtà l’impronta del Creatore, cioè la profonda razionalità del reale.

Questa integralità dei fattori spinge Palladio a progettare uno spazio quanto mai ordinato e razionale, funzionale e adeguato alle esigenze concrete dell’abitare umanamente dignitoso. L’unità del modello architettonico è data da diversi elementi che concorrono alla generazione di uno spazio unitario. L’estetica palladiana è fondata sulla proporzione e sul rapporto organico delle parti: la struttura delle ville è rigorosamente triadica “con un corpo centrale disposto sull’asse d’ingresso e due corpi laterali simmetrici”. (J. S. Ackerman, op. cit., p. 78)

Tra i corpi intercorre un rigoroso rapporto di connessione organica: “Palladio teneva conto di tutti i rapporti tra larghezze, profondità e altezze, nel corpo centrale come in quelli laterali, nell’interrelazione tra i vari corpi e l’insieme, in pianta come nei prospetti; la sua architettura è retta cioè da una rigorosa interconnessione di tipo organico”. La quale non poteva non derivare che da un attento sguardo alla realtà e all’organizzazione biomorfica dei suoi componenti viventi: l’occhio di Palladio era appassionato della realtà e ne rispettava la struttura. “Nel caso di palazzo Chiericati, l’edificio è biomorfico: anche il corpo umano è simmetrico rispetto ad un solo asse e mentre le parti disposte su quest’asse sono singole, come il naso e la bocca, quelle laterali sono doppie, come gli occhi e le braccia. Queste analogie con il corpo umano venivano formulate contemporaneamente anche da Michelangelo…; ma il naturalismo di Michelangelo era rigorosamente biomorfico e alieno da astrazioni matematiche”. (Ivi, p. 82)

Il biomorfismo di Palladio era caratterizzato da una grande attenzione alla proporzione matematica, intesa come misura dell’armonia e dell’ordine presente nel cosmo e nella realtà, impostazione questa di tipo pitagorico e platonico. Palladio aveva mutuato queste idee e le condivideva, oltre che con Daniele Barbaro nel suo commento a Vitruvio, con Silvio Belli che nel 1573 aveva pubblicato un Della Proportione et Proportionalità. In questo libro Belli “parla della proporzione come di una virtù cardinale, come della vera fonte di un’esatta distribuzione e di una sana bellezza. Quest’ultima è menzionata in quanto corrispondenza di tutte le parti disposte nel modo più appropriato, ossia come un aspetto della proporzione”. (Ivi, p. 79)

Una esemplificazione particolarmente importante e pregnante di conseguenze di questa idea di proporzionalità è “il fatto che gli equivalenti numerici delle relazioni costituenti le armonie musicali potessero, una volta applicati ai rapporti spaziali dell’architettura, generare armonie visive”; (Ivi, p. 80) confermate dalle sperimentazioni eseguite in sito nelle chiese palladiane dall’équipe del prof. Antonio Lovato, Docente di Musicologia all’Università di Padova. La dimensione acustica, quindi, deriva la sua efficacia proprio dal rispetto delle proporzioni matematiche. Inoltre, come sottolinea Ackerman, il sistema triadico “era avvalorato dalla funzionalità e dalla tradizione della tipica casa veneziana… Palladio ratifica esplicitamente questa tradizione”. (Ibidem)

“Negli edifici palladiani vige una gerarchia delle parti: essi sono scompartiti, in pianta e in prospetto, in un numero dispari di corpi verticali, in modo che il corpo centrale predomini su quelli laterali e rappresenti il culmine della composizione. Analogamente, le parti prossime al centro, sono più importanti, per dimensione e funzione, di quelle lontane”. (J. S. Ackerman, op. cit., p. 86) La gerarchia è un principio essenziale della realtà, intuito già da Platone (che attribuisce all’uomo il compito di dare i nomi alle cose e che gerarchizza il mondo sulla base della gerarchia delle Idee), ma confermato sia dalla tradizione biblica (i giorni della creazione determinano una naturale gerarchia ascendente delle creature fino all’uomo) che quella aristotelica (che struttura in tre regni gerarchizzati tutti gli esseri viventi).

Sia l’Umanesimo che il Rinascimento non hanno fatto che confermare il principio gerarchico (Cusano, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola parlano del cosmo come di una realtà gerarchicamente organizzata: ma era stato Dante che aveva sintetizzato questa fondamentale concezione in una terzina di stupefacente bellezza: “La gloria di Colui che tutto move \ per l’universo penetra e risplende \ in una parte più e meno altrove”. (Dante Alighieri, Paradiso, I, 1-3) La natura delle cose, quindi, non è caotica, proprio perché creata con un principio gerarchico ordinatore, e così anche la dimora umana che di quella natura imita la dimensione di ospitalità. Ackerman sintetizza, quindi, magistralmente la concezione dello spazio architettonico con tre principi che appaiono in piena sintonia con la concezione pareysoniana dell’edificio, inteso come unità delle parti nel tutto: “1. Gerarchia, cioè sistematico ‘crescendo’ dalle parti subordinate dell’edificio fino a un centro focale. 2. Integrazione, mediante la proporzionalità e in tre dimensioni, delle parti fra loro e col tutto. 3. Coordinamento tra esterni e interni mediante la proiezione dell’organismo interno sulle facciate e l’uso costante del sistema proporzionale”. (J. S. Ackerman, op. cit., p. 96)

La relazione con il tutto, il rapporto con l’ambiente

La seconda chiave di lettura è la relazione della dimora con l’ambiente, con la città e con il cosmo o genius loci, in quanto le opere palladiane sono in un costante rapporto con tutta la realtà circostante, naturale e antropica. La gerarchia, l’integrazione e il coordinamento delle parti tra loro e in rapporto al tutto in Palladio diventano anche relazione con l’ambiente circostante e, ultimamente, con il cosmo stesso. La casa-villa del Palladio riassume in sé il “genius loci”. L’esempio più emblematico di questo rapporto dell’edificio palladiano con l’ambiente è la Villa Almerico-Capra, detta “La Rotonda” a Vicenza, sui Colli Berici: “Essa sembra emergere notevolmente dal paesaggio: le facciate sui quattro lati, tutte ugualmente adornate da un portico, riprendono con le gradinate la pendenza della collina e la cupola centrale deve essere intesa come un rialzo del culmine della collina stessa. E’ questa costruzione a coronare la collina, oppure è la collina che si innalza per mezzo dell’edificio?”. (P. Marton – M. Wundram – T. Pape, Palladio. Tutte le opera, Taschen, Colonia 2008, p. 186)

Lo stesso Palladio, nei Quattro libri dell’Architettura, sottolinea lo stretto rapporto della villa con l’ambiente circostante: “Il posto è ben situato ed è uno dei più belli e piacevoli che si possano trovare, poiché si trova sul sommo di una collina, al quale si accede facilmente. Intorno a esso si estendono dolci colline che offrono la vista di un grande anfiteatro (…); e poiché da tutti e quattro i lati si gode di una vista bellissima, furono erette logge su tutte le facciate”. La villa è stata definita in un modo che ci sembra quanto mai esemplificativo del discorso che stiamo facendo: “forma formata dal paesaggio e formante il paesaggio”. (Cit. in ibidem) Il testo originale recita così: “Il sito è de gli ameni e dilettevoli che si possono ritrovare perché è sopra un monticello di ascesa facilissima ed è da una parte bagnato dal Bacchiglione fiume navigabile e dall’altro è circondato da altri amenissimi colli che rendono l’aspetto di un molto grande Theatro, e sono tutti coltivati et abondanti di frutti eccellentissimi e di buonissime viti: onde perché gode da ogni parte di bellissime viste… vi sono state fatte le loggie in tutte quattro le faccie”.

E’ unanimemente ritenuta il capolavoro dell’arte architettonica del Palladio, al punto da fare esclamare Wolfgang Goethe: “Forse mai l’arte architettonica ha raggiunto un tal grado di magnificenza”. (Cit. in Ibidem) Essa assurge universalmente a simbolo della stessa essenza, quasi metafisica, della visione architettonica palladiana: “libera da condizionamenti rispetto a quanto solitamente doveva costituire la parte feriale e aziendale delle ville, si trasforma al tempo stesso in un puro messaggio teorico e in una totale identificazione e coincidenza di un’architettura con l’anima e il carattere di un paesaggio e di una cultura, una sorta di tridimensionale quadrante di bus­sola o di concentrato di sapere e meditazione storico-archeologica e di clamorosa novità di scrittura e di proposta culturale”. (G. Romanelli, op. cit., p. 28)

Essa è l’unica delle ville palladiane che abbia una simmetria radiale: grazie a ciò la Rotonda è l’unica villa palladiana che abbia “un aspetto gradevole da tutti i possibili punti di vista, su un arco di 360°”. (J. S. Ackerman, op. cit., p. 87) “Girando attorno alla villa ad ogni lato si ripete la sorpresa del pronao ionico esastilo, proteso con l’alta scalinata verso il paesag­gio, che ora declina dolcemente verso il fiume (ahimè non più navigabile!) e la pianu­ra, ora si inoltra in un folto boschetto e nella valletta detta del Silenzio. Quattro volte si ripete l’invito ad entrare; e una volta dentro la sala circolare cupolata, che è il cuore della villa, il richiamo si ripete in senso contrario e si è attirati nuovamente verso l’esterno attraverso uno qualsiasi dei quattro corridoi che, come bracci di una croce greca, dividono con cristallina geometria il prisma cubico della scatola muraria in quattro settori angolari e riconducono alle logge, alle scale, alla natura. E nemmeno se a metà di un corridoio deviamo verso i camerini e le stanze d’angolo sfuggiamo a tale richiamo perché ad ogni porta che imbocchiamo ci troviamo di fronte uno scorcio di paesaggio inquadrato da una finestra”. (D. Battilotti, ivi)

La villa non era vincolata ai lavori agricoli, ma non era nemmeno una “villa belvedere” destinata unicamente alla “villeggiatura”: essa doveva diventare sia nelle intenzioni del committente sia nella esecuzione del Palladio “un vero e proprio tempio dell’otium umanistico”. E’ il Rinascimento stesso che vibra nella committenza della Rotonda, una sintesi di amore per la Romanità e di novità di stile che si respirava in quell’ambiente. Si vuole sì prendere ispirazione dagli antichi, ma per superarli e per osare qualcosa di nuovo, di inaudito e mai visto creando un rapporto totale con lo spazio circostante e con il cosmo stesso e una costruzione che fosse in se stessa un micro-cosmo, luogo ideale e simbolico dell’essenza stessa dell’Umanista e della sua epoca tardo-rinascimentale. Elemento assolutamente innovatore nel panorama delle ville palladiane è la cupola: nel disegno originario doveva essere perfettamente emisferica e coronata da una lanterna, mentre nella realtà è costituita da fasce a scalare. La cupola ha un forte simbolismo cosmologico e rappresenta la volta del cielo e, quindi, Dio: è anche un elemento di forte classicità: addirittura si pensa che la cupola fosse aperta come quella del Pantheon e che l’acqua piovana si raccogliesse nell’impluvium che sottostà al “traforo sistemato al centro del pavimento e ornato dalla testa di un fauno”.(Ivi, p. 127) La forma sferica della cupola si intreccia con il cubo ideale costituito dall’edificio, dalla base fino al sommo della cupola, esclusa la lanterna; a questo si aggiunge la pianta perfettamente quadrata, con quattro bracci a croce greca, costituiti dai quattro pronai: il quadrato, il cubo, la croce e la sfera si intrecciano fortemente in modo fortemente simbolico ed allusivo.

Quale è il significato di questa scelta formale? E’ un significato innanzitutto cosmologico, accentuato anche dal fatto che la villa è orientata esattamente secondo i quattro punti cardinali: la terra (cubo e quadrato) si intreccia entra in una relazione forte con il cielo. L’uomo che abita la villa si sente veramente, come diceva Marsilio Ficino, copula mundi, elemento unificatore del mondo, cerniera tra cielo e terra. Non solo perché la villa si proietta realisticamente nell’ambiente e si relaziona intensamente con esso dal punto di vista volumetrico (si confonde con la collina) e visivo, ma anche perché nel simbolismo della sua struttura rappresenta il cosmo nella sua totalità. L’edificio, quindi, ricorda a chi la abita, ai suoi ospiti e ai passanti, la dignità dell’uomo così come era concepita dai rinascimentali e la sua responsabilità all’interno del creato: elevare la terra al cielo e portare alla terra il divino. Così il senso della villa, da umanistico e cosmico, si fa intensamente religioso; riprendendo il tema del tempio greco e romano, Palladio crea quattro logge esastile di stile ionico con frontoni; altri elementi del tempio antico, soprattutto romano, sono la cupola e la scala che eleva tutta la costruzione al di sopra del piano. Questo elemento della religiosità antica viene innestato nella struttura abitativa nobiliare e costituisce la grande innovazione e la genialità architettonica di Palladio: in più nella Rotonda, si inserisce anche un altro elemento religioso e cristiano, la pianta a croce greca.

Perché questa ripresa di elementi dell’architettura religiosa pre-cristiana e cristiana e il loro inserimento in un contesto abitativo laico? Potremmo dire perché Palladio ha un concetto poetico dello spazio. Egli concepisce lo spazio come la dimora dell’uomo che riconosce e attribuisce il significato dello spazio e del tempo e stabilisce in esso la sua dimora. All’interno dello spazio e del tempo l’uomo costruisce delle dimore, che hanno il compito di permettere all’uomo di raccogliersi in se stesso e di raccogliere e sintetizzare tutto il significato dello spazio, tutto il rapporto tra sé e l’ambiente circostante. Nella dimora, la casa, l’uomo trova il senso della propria interiorità, ma anche del rapporto con gli altri, con l’altro (l’ospitalità, l’accoglienza, ad esempio, in una dimora di villeggiatura, di amici, il suo valore di rappresentanza e di visibilità di sé e del valore della propria famiglia) e con il tutto (il significato cosmico e il rapporto con l’ambiente circostante).

Nella Rotonda sono presenti alcuni particolari che confermano queste riflessioni: “tra gli esuberanti stucchi del soffitto è raffigurata al centro una figura bianca con un serpente che si morde la coda, simbolo dell’eternità assieme alle tre Grazie, mentre attorno si dispongono sei tondi con le Arti e due rettangoli con Minerva a Vulcano. Nel soprapporta si trova un quadro con il presunto ritratto del Palladio con sul fondo la Rotonda”. (D. Battilotti, Le ville di Palladio, op. cit., pp. 128-129) L’arte come nostalgia di eternità e come possibilità per l’artista che ne è protagonista di mettersi in rapporto con il Mistero dell’Essere!

Commodità

La terza chiave di lettura è la funzionalità dell’opera che, nel caso delle ville, è sostanzialmente di tre tipi: agricola, casa di villeggiatura e di rappresentanza, con l’eccezione straordinaria della Villa Almerico-Capra che è un locus tipicamente umanistico-rinascimentale. La villa deve essere commisurata agli usi pratici determinati dalla committenza, sia che questa esiga una costruzione di rappresentanza, come Villa Pisani a Montagnana, sia che esiga una dimora di ozio culturale, come la Rotonda e la Barbaro a Maser, sia che l’esigenza sia quella del lavoro agricolo e la villa sia in realtà il luogo della coabitazione di un nobile con la sua azienda. E’ un aspetto e una conseguenza molto concreta di quell’attenzione per l’uomo che caratterizzava la cultura di Palladio. “E una sorta di silenziosa rivoluzione per il territorio veneto quella che si compie verso la metà del Cinquecento e che vede lo stato affiancarsi all’iniziativa privata in grandi opere di bonifica di quei possedimenti paludosi e improduttivi e nell’introduzione di nuovi e più razionali metodi di coltivazione.

Operazione che verrà istituzionalizzata nel 1556 con la creazione della Magistratura dei Beni Inculti e che ebbe il suo più tenace promotore nel nobile Alvise Cornaro che additò appunto nel possesso della terra e nell’esercizio della “santa agricoltura” la via da seguire per dare nuovo impulso a Venezia. L’esito più vistoso del fenomeno ora delineato, di questa sorta di rifeudalizzazione, è rappresentato dal proliferare delle abitazioni di villa, necessarie infrastrutture per permettere al signore di seguire da vicino i suoi possedimenti. Non che prima non esistessero ville nel Veneto, sia chiaro, ma la loro funzione primaria era legata principalmente alla villeggiatura del cittadino in campagna per potervi consumare giornate d’ozio e di riposo fuori del contesto urbano. E’ questo un tipo di villa che aveva avuto precedenti illustri, a cominciare dalla residenza del Petrarca ad Arquà, fino al più recente Barco di Caterina Cornaro ad Altivole, e che continuerà ad avere vita autonoma (si pensi alle palladiane Rotonda o alla Malcontenta); ma ora alle esigenze di svago si aggiungono, altrettanto importanti, quelle funzionali e si richiedono quindi soluzioni tipologiche diverse.

Ed è a questo punto che entra in scena Andrea Palladio, a raccogliere e ad unire tutte queste istanze. La sua ricerca non nasce naturalmente dal nulla; affonda le radici in precedenti esperienze ed è indirizzata dagli insegnamenti di Giangiorgio Trissino e soprattutto di Alvise Cornaro. Ma il risultato finale appartiene interamente al suo genio. Egli inventa un nuovo tipo di villa in cui la funzione agricola è integrata con la funzione aristocratica della vecchia villa: a Villa Angarano, ad esempio, per la prima volta in modo evidente, i rustici sono uniti alla corte del signore senza cesura abitativa, “saldando così in una compiuta sintesi figurativa, altre che fisica, il momento funzionale della gestione agricola e quello dello svago e dell’autocelebrazione aristocratica del proprietario. Questo tipo di villa-fattoria, vero specchio degli ideali del tempo e che raggiunge i livelli qualitativamente più alti nella Badoera a Fratta Polesine e nella Emo di Fanzolo – tra quelle interamente eseguite -, si configura così come una sorta di “città piccola”. Ne è cuore ovviamente la casa tempio del gentiluomo, esaltata dall’ampia scala, sigillata dal frontone retto dal colonnato della loggia e riccamente affrescata all’interno; mentre ai suoi lati, in posizione subordinata ma tutt’altro che emarginata, si dipartono i portici – ora rettilinei, ora ad angolo retto, ora ad emiciclo – delle barchesse che come braccia si distendono nel paesaggio circostante, sigillate spesso da torri colombare. Al riparo di essi il padrone può così sorvegliare le molteplici attività dei contadini che gravitano attorno alla sua dimora, abitando nelle case sparse nella proprietà, controllare i raccolti, le stalle, gli attrezzi. I vari elementi di questa “città piccola” sono legati tra di loro dal comune linguaggio classico e si dispongono secondo una precisa gerarchia. Solo nel caso della purtroppo scomparsa villa Repeta a Campiglia dei Berici (1557-1558 circa) questi elementi risultano posti tutti su uno stesso piano, senza nessuna differenziazione tra i servizi e l’abitazione del signore, in accordo con le particolari convinzioni del committente, legato ai circoli anabattisti vicentini”. (D. Battilotti, Le ville di Palladio, op. cit., pp.  11-20, passim)

Perpetuità

La quarta chiave di lettura dell’opera palladiana è il rapporto con il modello classico, che in Palladio è ispirativo ma mai ripetitivo: esso è sempre spunto di innovazione e originalità, mai di manierismo. L’edificio deve aspirare all’immortalità, come quella sete di sfidare il tempo e di vivere eternamente che c’è nell’uomo che lo abita. Egli è fatto per l’eterno e la casa ne è l’emblema, la rappresentazione del bisogno di non morire che c’è nell’uomo, insieme alla sua mortalità, come sottolineava Heidegger. Questo desiderio di dare alle proprie costruzioni una dimensione di eterno, spinse Palladio a cercare nell’antico, non tanto modelli da imitare, come spesso si crede, ma forme che rappresentassero realizzato quel desiderio di immortalità. Palladio non cercava di ripetere ma cercava delle forme vive: “L’architettura di Palladio può chiamarsi “classica”? Se questo attributo significa ‘nello spirito degli antichi greci e romani’, esso è applicabile solo ad alcune opere come il Teatro Olimpico, e anche a queste in modo approssimativo. Palladio amava i ruderi ma – come in genere accade agli innamorati – vedeva in essi solo ciò che desiderava vedere, a modo suo”. (J. S. Ackerman, op. cit., p. 96)

Da innamorato Palladio cercava nel passato la vita, cercava quello che gli interessava: forme vive. Egli recupera due tipi di edifici, le terme e il tempio di Preneste: egli prende dalla classicità non forme compiute, ma spunti, che porterà a compimento con la sua poetica dello spazio, con la sua particolare concezione di ordine e con la sua potente energia di vita e di creazione. Come gli innamorati vedono spesso quello che vogliono vedere: questo Palladio ha visto nell’antichità una possibilità di ordine, una integrazione dello spazio, una razionalità compositiva, una simmetria, una simbologia cosmica, una gerarchia, una organicità. Ma Palladio ha trovato nella classicità solo degli spunti, non delle soluzioni, non dei modelli: “Gli insegnamenti tratti dai romani furono solo uno stimolo a formulare certi principi che non emergevano dall’architettura classica”. (Ibidem)

Questo, che è molto vicino a ciò che teorizza Pareyson a proposito dell’imitazione e dello spunto: è possibile perché Palladio aveva un rapporto di contemporaneità con il passato e il suo amore archeologico è la ricerca di nessi vivi con il passato, in quanto è la ricerca di significati e forme universali ed eterne: ma non di idee astratte o di modelli iperuranici. Egli vedeva da innamorato ciò che vedeva in se stesso: riconosceva negli antichi le stesse aspirazioni e gli stessi desideri che vedeva in sé stesso. Non è un’operazione intellettuale come alcuni studiosi credono, non è un’operazione ideologica: Palladio ha vissuto dentro di sé delle esigenze, ha portato con sé delle domande e le ha rivolte con coraggio e semplicità agli uomini del passato e alle loro opere. Non le ha imitate pedissequamente, ma ha cercato di capire e di immedesimarsi nel loro spirito, cercando di cogliere ciò che le rendeva grandi, ciò che le rendeva immortali, vale a dire l’aspettativa struggente di una risposta, di una pienezza, di una Totalità: insomma il loro rapporto, spesso confuso e incerto, con il Mistero dell’Essere.

Solo chi aveva del passato questo tipo di rispetto e di ammirazione poteva creare delle cose non ripetitive, non stucchevoli e poteva creare uno stile e un metodo che ha fatto scuola per quattro secoli e che ancora oggi ci sorprende e ammiriamo in tutto il mondo. Come si può, dopo due secoli di classicismo, a partire da Petrarca, proporre facciate moderne con templi antichi come modelli? Come poté non essere sentita come già vecchia in partenza questa operazione? E’ perché non cercava modelli da imitare, come spesso erroneamente si dice, ma cercava ciò che rendeva gli antichi eternamente e universalmente capaci di parlare al cuore dell’uomo e li interrogava con le domande presenti nel suo cuore: e trovava lo stesso struggente desiderio di bellezza e di grandezza. E’ questo che ha reso grande Palladio: la sua capacità di far rivivere gli antichi attraverso il suo desiderio di vita, trasferito nella concezione dello spazio e della bellezza architettonica. Ed è per questo che è capace di parlare a tutte le generazioni, anche a noi moderni.

Bellezza

La quinta chiave di lettura è la forma, razionale e “sensitiva” nello stesso tempo, come hanno sottolineato Ackerman e Puppi, che conferisce alle opere di Palladio una bellezza unica, che sfida il tempo e che si è diffusa in tutto il mondo. La bellezza che cercava Palladio è forma, svelamento della verità dell’Essere, come dice Heidegger; e come dice San Tommaso: “la bellezza è lo splendore della verità”. La bellezza è il riverbero della razionalità che è presente nel cosmo, la geometria presente nei rapporti e nelle proporzioni, come pitagoricamente professato da Vitruvio e teorizzato da Platone nel Timeo.

L’architettura carpisce questa misura e questo ordine profondi e li traduce nella pietra, nello spazio, nella luce. Palladio è un grande Maestro del segno: il suo segno grafico nei Quattro libri è pulito e rigoroso, razionale e netto, pienamente al servizio della forma architettonica. Questa purezza e perfezione è stata interpretata come una freddezza e astrattezza, tutte frutto di razionalità e di mancanza di cuore, di passione. Il prof. Puppi, uno dei più grandi conoscitori di Palladio, in una sua conferenza, ha invece sottolineato che non c’è solo il Palladio dei Quattro Libri, ma c’è un Palladio nascosto e che non si vuole rivelare nei documenti, come se avesse voluto dare solo quella immagine pura e perfetta di sé, e che si ritrova invece andando dentro alle sue ville, alle sue costruzioni.

E’ un Palladio della passione e del sentimento, che parla attraverso la luce e il colore, ma che non si percepisce più perché velato e nascosto dall’altro Palladio ufficiale. Questa interpretazione, che per un attimo ci ha lasciati stupiti e perplessi, ci ha messo non poco in discussione, lasciando una grossa domanda in noi su quale fosse il vero Palladio. Ackerman ci ha indicato la strada per trovare la risposta: il classicismo di Palladio è sui generis, non coincide con quello di Raffaello o Sansovino, che realizzarono uno stile dove la razionalità e l’organizzazione formale prevalevano sui sensi, come sembra prevalere nei Quattro Libri.

“Ma c’è un altro Palladio sconosciuto a molti classicisti che venerarono i suoi scritti senza mai recarsi nel Veneto: ed è il mago della luce e del colore, il Veronese dell’Architettura. Palladio era un artista sensuale, altrettanto esperto nell’alchimia della visione quanto qualsiasi pittore veneziano del suo tempo. Gli piaceva modulare la luce, e introdusse nell’architettura valori coloristici e di superficie del tutto nuovi, oppure usò in combinazioni inedite quelli già noti. E’ stata questa sintesi di elementi sensuali e intellettuali a rendere Palladio così caro a tante generazioni e a tipi così diversi di occidentali, a differenza di classicisti puri come Raffaello o di puristi sensuali come il Veronese”.

L’illustre critico dà anche la spiegazione più chiara ed esauriente di questa apparente dicotomia in Palladio: “Dal Romanticismo in poi, intelletto e senso sono stati contrapposti fino al punto che l’uno sembra escludere l’altro: i classicisti sono intesi come puramente razionali e i romantici come puramente sensuali o emotivi. Ma i cri­tici migliori di Palladio sono stati quelli che, più vicini a lui nel tempo, erano meglio disposti ad accettare la com­plessità della sua opera: emerge tra loro l’artista più fer­vido e più «classico» del Seicento veneziano, Baldassarre Longhena. Mentre Venezia continuò per secoli a vivere nell’incan­tesimo dell’architettura palladiana, nel resto d’Europa si ebbe nel secolo XVIII una reazione puristica contro gli e­ccessi e il preziosismo dell’architettura tardo barocca e roco­cò. I riformatori dell’età dei lumi compresero solo il Pal­ladio razionalista dei Quattro libri e dei disegni (questi ultimi finiti per caso in Inghilterra, dove l’interesse per Palladio fu più vivo e fecondo che altrove), ma ben di ra­do ebbero una conoscenza diretta delle sue opere. Le più imitate fra queste, le ville, erano difficilmente accessibili, del resto i seguaci di Palladio procuravano di eliminare proprio quelle qualità per cui gli edifici costruiti si distinguevano dalle loro riproduzioni grafiche. Il solo critico sensibile e congeniale di Palladio nel Settecento fu un uomo in cui senso e intelletto erano associati in grado sublime: Goethe”. (J. S. Ackerman, op. cit., p. 97-98

In realtà, quindi, non si tratta di un doppio Palladio: egli è uno solo, un uomo vero, unito, che viveva profondamente la sua dimensione razionale e la sua dimensione sensibile. Era semplicemente un uomo grande, perché in lui sentimento e ragione erano uniti, erano tutt’uno. Ecco perché le sue opere appaiono così grandi, belle, eterne: perché costituiscono dimore per una vita autenticamente umana, che non è scissa tra sentimento e ragione, tra fede e realtà, tra affezione e razionalità, tra cuore e intelletto. E’ sembrato diviso solo a chi è già diviso, solo a chi ha già separato ragione e sentimento: è sembrato diviso e alternativo a chi ha opposto la ragione alla realtà, imponendo ad essa le lenti deformanti dell’ideologia. Invece, Palladio ascoltava le esigenze del suo cuore esattamente come accoglieva l’inclinazione all’ordine della sua razionalità: per lui la vera bellezza non è conflittuale, non pone alternativa tra sentire e capire, per lui la bellezza è sintetica.

È forza unificante tra le due dimensioni fondamentali dell’essere umano. Ackerman, parlando degli schizzi eseguiti sulle rovine e sugli scavi delle Terme di Caracalla, dice di Palladio: “Più che avanzare ipotesi sul metodo compositivo del progettista antico, egli descrive qui la sua esperienza del trovarsi all’interno dell’edificio”: (Ivi, p. 90) esperienza poi utilizzata nei suoi progetti. E’ da una esperienza che nasceva l’opera architettonica palladiana: egli “viveva” lo spazio e la forma nasceva da una unità del suo essere all’interno di una esperienza. Non nasceva da una divisione ma da una unità tra la razionalità che dava l’equilibrio e la sensibilità che infondeva calore, forza ed energia attraverso il colore e la luce: queste due sorgenti in lui erano riunite. Dalle facoltà (sentimento e ragione) unite nell’umano nasce anche un’opera d’arte unitaria e integrale che vive tanto nei Quattro Libri quanto nelle sue ville, pur nella diversa modalità di comunicarsi. Sta a noi cogliere questa unitarietà e attingere alla ricchezza di forza e di equilibrio, di passione e di armonia che le sue opere sanno trasmettere: bisogna mettersi in sintonia e lasciarsi provocare con semplicità dalla grandezza di questo spazio architettonico, dobbiamo liberarci dai pregiudizi e dai filtri ideologici, dobbiamo lasciare respirare la nostra umanità e metterci in sintonia con quella di Palladio. Scopriremo che la bellezza delle dimore disegnate da Palladio deriva dalla sua libertà di creare forme che parlano del Mistero, di poetare: cioè di dimorare nell’abbraccio dell’Essere, di cui l’architettura è il linguaggio forse più suggestivo e affascinante per il confuso uomo di oggi.

Queste cinque chiavi di lettura sono le coordinate di una concezione dello spazio architettonico e dell’abitare che ha avuto un grandissimo successo e che si è imposto universalmente per diversi secoli in tutta Europa, che è riconosciuto come “palladianesimo” e che è stato indicato nel Ciclo di Incontri in Università, appunto, con il termine di “bella geometria per l’uomo”. E’ un concetto di spazio architettonico aperto a tutti i fattori dell’esperienza umana, da quelli dell’esperienza percettiva, a quelli dell’esperienza razionale, a quelli dell’esperienza emotiva e del sentimento. L’arte architettonica di Andrea Palladio rappresenta una lezione, attualissima anche per l’oggi, di un modo di concepire l’abitare dell’uomo secondo l’integralità dei fattori costitutivi di uno spazio abitabile, perché portatore di uno sguardo simpatetico sulle esigenze originarie dell’uomo, come è testimoniato nelle espressioni più autentiche del Rinascimento.

Guy de Maupassant di fronte alla Afrodite Landolina: il neoclassicismo in azione

Un commento al testo di Guy del Maupassant, un esempio meraviglioso di neoclassicismo

Nel modo con cui Guy de Maupassant parla dell’opera d’arte si manifesta il neoclassicismo. Nella Venere di Siracusa (Venere Landolina) Guy de Maupassant vede incarnata la potenza femminile, cioè il progetto originario della donna e si rapporta ad essa come si rapportava ad essa il maschile nel progetto originario. Oggi, come nel 1885 queste due cose sono dimenticate, naufragate nel materialismo e nel maschilismo tossico che caratterizza la società attuale che è una specie di riedizione dell’età vittoriana. Ecco il testo di Guy de Maupassant:

«Penetrando nel museo, la scorsi subito in fondo ad una sala, e bella proprio come l’avevo immaginata. Non ha la testa, le manca un braccio; mai tuttavia la forma umana mi è parsa più meravigliosa e più seducente. Non è la donna vista dal poeta, la donna è realizzata, la donna divina maestosa, come la Venere di Milo, e la donna così come, così come la siamo, come la si desidera, come la si vuole stringere. E robusta, col petto colmo, l’anca possente la gamba un po’ forte, è una Venere carnale che si immagina coricata quando la si vede. Il braccio caduto nascondeva i seni; con la mano rimasta, solleva un drappeggio col quale copre, con gesto adorabile, i fascini più misteriosi. Tutto il corpo è fatto, concepito, inclinato per questo movimento, tutte le linee vi si concentrano, tutto il pensiero vi confluisce. Questo gesto semplice naturale, pieno di pudore e ti impudicizia, che nasconde e mostra, che vela e rivela, che attrae che fugge, sembra definire tutto l’atteggiamento della donna sulla terra.

Autore ignoto, Venere Landolina, marmo di Paros, copia romana di un originale greco della prima metà del II secolo d. C., Museo Archeologico regionale Paolo Orsi di Siracusa

Ed il marmo e vivo. Così lo vorresti palpeggiare, con la certezza che cederà sotto la mano, come la carne. Le reni soprattutto sono indicibilmente animate belle. Si segue, in tutto il suo fascino, la linea morbida grassa della schiena femminile che va dalla nuca ai talloni, e che, nel contorno delle spalle, nelle rotondità decrescenti delle cosce e nella leggera curva del polpaccio assottigliato fino alle caviglie, rivela tutte le modulazioni della grazia umana. Un’opera d’arte appare superiore soltanto se è, nello stesso tempo, il simbolo e l’esatta espressione di una realtà. La Venere di Siracusa è una donna, ed è anche il simbolo della carne. Dinnanzi al volto della Gioconda, ci si sente ossessionati da non so quale tentazione di amore snervante mistico. Esistono anche donne viventi i cui occhi ci infondono quel sogno di tenerezza irrealizzabile misteriosa. Si cerca in esse qualcos’altro dietro le apparenze, perché sembrano contenere ed esprimere un po’ di quell’ideale inafferrabile. Noi lo seguiamo senza mai raggiungerlo, di tutte le sorprese della bellezza che pare contenere un pensiero, nell’infinito dello sguardo il quale è semplicemente una sfumatura dell’iride, nel fascino del sorriso nato da una piega delle labbra e da un lampo di smalto, nella grazia del movimento fortuito e dell’armonia delle forme.

Così i poeti, impotenti staccatori di stelle, sono sempre stati tormentati da una sete di amore mistico. L’esaltazione naturale di un animo poetico, esasperato dall’eccitazione artistica, spinge quegli esseri scelti a concepire una specie di amore nebuloso, perdutamente tenero, e statico, mai sazio, sensuale senza essere carnale, talmente delicato che un nonnulla lo fa svanire, irrealizzabile sovrumano. E questi puoi ci sono, forse, i soli uomini che non abbiano mai amato una donna, una vera donna in carne ossa, con le sue qualità di donna, i suoi difetti di donna, la sua mente di donna, ristretta ed affascinante, i suoi nervi di donna e la sua sconcertante femminilità. Qualsiasi creatura davanti a cui si esalta il loro sogno diventa il simbolo di un essere misterioso, ma fantastico: l’essere celebrato da quei cantori di illusioni. E la creatura vivente da loro adorata e qualcosa come la statua dipinta, immagine di un dio di fronte al quale il popolo cade in ginocchio. Ma dov’è questo dio! Quale questo dio! In quale parte del cielo abita la sconosciuta che quei pazzi, dal primo sognatore fino all’ultimo, hanno tutti idolatrata? Non appena essi toccano una mano che risponde la stretta, la loro anima vola via nell’invisibile sogno, lontano dalla realtà della carne.

La donna che stringono, essi la trasformano, la completano, la sfigurano con la loro arte poetica. Non sono le sue labbra che baciano, bensì le labbra sognate. Non è in fondo agli occhi di lei, azzurri o neri, che si perde così il loro sguardo esaltato, e in qualcosa di sconosciuto e di inconoscibile. L’occhio della loro dea non è altro che un vetro attraverso cui essi cercano di vedere il paradiso dell’amore ideale. Se tuttavia alcune donne seducenti possono dare alle nostre anime una così rara illusione, altri non fanno che citare nelle nostre vene l’amore impetuoso che perpetua la razza. La Venere dì Siracusa e la perfetta espressione della bellezza possente, sana e semplice. Questo busto stupendo, di marmo di Paros, è -dicono – La Venere Callipigia descritta da Ateneo e Lampridio, data da Eliogabalo ai siracusani. Non ha testa! E che importa? Il simbolo non è diventato più completo. È un corpo di donna che esprime tutta l’autentica poesia della carezza. Schopenauer scrisse che la natura, volendo perpetuare la specie, ha fatto della riproduzione una trappola. La forma di marmo, vista a Siracusa, e proprio l’umana trappola intuita dall’artista antico, la donna che nasconde rivela l’incredibile mistero della vita. È una trappola? Che importa! Essa chiama la bocca, attira la mano, offre ai baci la tangibile realtà della carne stupenda, della carne soffice bianca, tonda e soda e deliziosa da stringere. È divina, non perché esprima un pensiero, bensì semplicemente perché è bella.» (Guy de Maupassant, Tour en Sicilie, 1885, pp. 127-129: 131-133)

In questo testo emerge un esempio fulgido del pensiero estetico del neoclassicismo che si ritrova in Canova, citato nella lettera di S. su cui stiamo riflettendo negli ultimi articoli. Mi sembra che, a partire dal testo di Guy de Maupassant, questo neoclassicismo sia composto da dieci elementi:

1. La carnalità: “è una Venere carnale”. “La Venere di Siracusa è una donna, ed è anche il simbolo della carne”: la Venere di Siracusa rappresenta la donna reale carnale, cioè corporea e suscitatrice di eros, contemporaneamente,, è una promessa di piacere, di bellezza e di felicità corporea, parla il linguaggio che più le è proprio nel progetto originario, il Linguaggio del corpo, dell’eros e del piacere, mentre la donna nella società moderna è ingabbiata e rinchiusa in una specie di “Vergine di Norimberga”, che era uno strumento di tortura che uccideva la donna schiacciandola e trafiggendola in un sarcofago pieno di punte acuminate al suo interno.

2. Questa carnalità si esprime in una gestualità adorabile: “con la mano rimasta, solleva un drappeggio col quale copre, con gesto adorabile, i fascini più misteriosi”. Il gesto che copre e svela, allo stesso tempo, il cuore, l’essenza della sua femminilità, dove risiede la via di accesso al luogo della generazione, cioè all’esperienza edenica di tutti, la vita intrauterina. Quel gesto ì l’anticamera del progetto originario, la cui essenza è simboleggiata nella corporeità, ma che vive nell’inconscio come ricordo dell’esistenza intrauterina. Quel gesto richiama alla memoria il ricordo inconscio di quella vita primordiale.

3. “Questo gesto semplice naturale, pieno di pudore e ti impudicizia, che nasconde e mostra, che vela e rivela, che attrae che fugge, sembra definire tutto l’atteggiamento della donna sulla terra”. La donna stessa e la sua missione divina sulla terra consistono in quel gesto che, nell’aprire e chiudere quella porta, è via di accesso, ma anche custode del passaggio non solo nell’esperienza del LICEL (Linguaggio del Corpo, dell’Eros e della Libido), ma anche nella vita edenica intrauterina e nel progetto originario in quanto tale, come evocato, del resto, nel Cantico dei Cantici. Quel gesto che richiama all’utero femminile dice simbolicamente, che questo è il centro energetico e dinamico del cosmo che ogni donna porta dentro di sé e che la accompagna dappertutto e che a tutto sa donare oppure sottrarre, se fosse lasciata libera e non fosse manipolata dalla società che, invece, intrappola tutto in una gabbia impenetrabile.

4. “Ed il marmo e vivo. Così lo vorresti palpeggiare, con la certezza che cederà sotto la mano, come la carne”. Il marmo è vivo: per un classicista il marmo prende vita e non è che una donna carnale in tutta la sua prorompente corporeità. Qui Guy de Maupassant si dimentica che il marmo è marmo, ma per la mente questo limite non esiste, perché il classicista ha deciso di non essere materialista, bensì di essere “energicista”, dinamicista e, dunque, di rompere i limiti che la materia impone alla mente per conto della società e vede nel marmo la FORMA, cioè l’essenza simbolica. Insomma, il marmo è simbolo e il classicista sa vivere di energia simbolica. Cosa fa, invece, il materialista? Dopo qualche mese si è già annoiato di quella carnalità e permette alla matrix, con tutte le sue gabbie mentali, di penetrare nella relazione e di ammorbarla, intossicarla con tutti i veleni del progetto privato. 

5. “La Venere di Siracusa rivela tutte le modulazioni della grazia umana”: Il classicismo sa rivelare tutte le modulazioni della grazia umana:

le “reni animate e belle”;

la linea morbida della schiena femminile dalla nuca ai talloni;

le rotondità decrescenti delle cosce;

la leggera curva del polpaccio assottigliato fino alle caviglie.

Se prima il classicista ha descritto la forma ora dà a questa forma una linea sinuosa ed armoniosa, proporzionata, che parte dalla nuca, passa pe le spalle, scende sulla schiena e le reni, continua sulle cosce e arriva, passando per il polpaccio, alle caviglie e ai talloni. Con la descrizione visiva del classicista Guy de Maupassant abbiamo accarezzato simbolicamente tutta la linea della forma femminile, cioè il segreto corporeo della sua bellezza.

6. “La Venere dì Siracusa è la perfetta espressione della bellezza possente, sana e semplice”: la bellezza femminile, per il classicista Guy de Maupassant, soprattutto nella Venere di Siracusa, è la perfetta espressione della bellezza potente, sana e semplice. Questi tre caratteri esprimono il progetto originario della potenza femminile: vuol dire che la donna è il centro energetico dell’universo, esattamente come lo è Dio o il Motore Immobile, perché essa è l’origine della vita. Vuol dire che in essa si trova il principio della salute e della guarigione, mentre altrove ci sono solo tossicità e malattie (nel maschilismo tossico). Vuol dire che la potenza femminile è l’essenza semplice non complessa, non complicata, ma elementare e primordiale del cosmo.

7. “È un corpo di donna che esprime tutta l’autentica poesia della carezza”: la carezza è il linguaggio fondamentale sia del corpo che del classicista. La carezza è lo strumento della mistica del contatto, cioè di quel rapporto con il mistero della vita e del corpo che passa attraverso il tatto, il senso divino per eccellenza, dal momento che senza tatto non potrebbe esserci l’amore fecondo (non a caso il tatto è odiato dalla matrix) e i bambini non potrebbero crescere e vivere.

8. “La forma di marmo, vista a Siracusa, e proprio l’umana trappola intuita dall’artista antico, la donna che nasconde rivela l’incredibile mistero della vita”: il classicista vede nella forma di marmo della Venere di Siracusa la trappola umana dell’amore di cui parla Schopenhauer: la potenza femminile è il potente attrattore del maschile verso la vita, maschile, che sarebbe distratto e superficiale, e che viene attirato dalla bellezza e grazia femminile, ingannato, certo, per dare il suo apporto necessario, ma non sufficiente, alla generazione. Il classicista Guy de Maupassant si inchina a questo progetto originario insito nella natura e si dichiara obbediente servitore di questo disegno originario.

9. “Essa chiama la bocca, attira la mano, offre ai baci la tangibile realtà della carne stupenda, della carne soffice bianca”: la femminilità è chiamata, vocazione, attira la bocca e la mano e offre ai baci la carne stupenda, soffice, bianca, tonda, soda e deliziosa. Il classicista esercita tutto il linguaggio dell’eros e del piacere e non si tira indietro: la donna attrae e offre, ma anche custodisce e protegge il tesoro.

10. “È divina, non perché esprima un pensiero, bensì semplicemente perché è bella”: il classicista fa il suo dovere, esegue la sua missione e svolge il suo compito di amante e di corteggiatore, perché egli è un sacerdote del divino. Secondo il classicismo la donna è l’epifania (una manifestazione) del divino sulla terra e il poeta, l’artista ne è il sacerdote devoto e fedele. La donna è divina perché rappresenta l’energia cosmica concentrata in un punto, da cui sgorga la vita. Essa chiama il maschile a farsi sacerdote di questa dea e ad offrire a questa divinità il suo dono d’amore per la generazione, per la fioritura della vita sulla terra.

“Quel desiderio di fondermi con la luce eterna dell’Assunta di Tiziano”

Ecco il testo di una lettera scrittami il 30 gennaio 2020 da un’ex allieva, che parla di un’esperienza estetica simile a quella precedente su cui stiamo dialogando. Nella mia risposta cerco di entrare in merito ad alcune dinamiche psicologiche ed emotive legate all’esperienza dell’estasi estetica.

L’esperienza cosmico-estetica di una mia ex allieva

“Buonasera professore, mi rende molto felice la sua richiesta di condividere con lei mie eventuali riflessioni.  Devo dire che l’uso della parola “meditazione” mi perplime alquanto: meditare è forse la capacità di sbrigliare la propria mente e concederle qualche minuto di libertà vigilata per dare libero corso ai suoi pensieri o si tratta, piuttosto, di raschiare le pareti della nostra materia cerebrale alla ricerca spasmodica di una verità apparentemente insondabile? Oppure nasce dall’unione di entrambe le cose? Non saprei. Io so solo che penso, penso costantemente. 

A volte mi rimprovero di pensare troppo, perché, è risaputo, riflettere sulle cose fino a svuotarle della loro essenza produce una gran frustrazione. E spesso è questo l’esito del mio vagare con la mente. Ma, purtroppo o per fortuna, non riesco proprio a farne a meno, è la mia natura e non posso, né voglio, liberarmene.  Ad ogni modo le scrivo perché qualcosa che vorrei condividere con lei c’è, ma non si tratta propriamente di una riflessione, anzi direi che parlerò dell’esatto contrario, della perdita di razionalità, dell’incapacità di intendere qualunque cosa. No, non le sto parlando di uno stato di follia, bensì di un’esperienza mistica: l’estasi. 

Non è affatto esagerato parlare di questo argomento in termini di estraneità dalla ragione stessa, se si considera che il significato etimologico del termine “estasi” è esattamente quello: ἔκστασις, ek unito a stasis, ovvero essere fuori da, che nel tempo verbale medio diventa “essere fuori di sé”, anzi oserei correggere questa traduzione proposta da diverse fonti che ho consultato in “essere fuori da sé”, per accentuare questa forma di sdoppiamento. 

Scusi questa piccola digressione linguistica, ma ritengo questo argomento talmente sfuggente, talmente irriducibile a una scarna definizione, da aggrapparmi a qualsiasi indizio per comprendere meglio ciò che ho vissuto.  Le parlo di qualcosa che, ne sono sicura, lei conoscerà certamente, da amante dell’arte quale è: la sindrome di Stendhal.  Sa, anche solo parlarne o ripensarci mi emoziona. È un’esperienza così grande (uso grande perché non esiste termine più potente che possa definirne la potenza) che non so neanche come metterla per iscritto. Ho un’immensa paura di banalizzarla e non è quello che voglio, perché la giudico l’esperienza più sublimante della mia vita. Tutto è iniziato quando l’anno scorso mossi i primi passi verso la mia carriera universitaria, partecipando a una mattinata di orientamento presso Ca’ Foscari. Una volta terminata, decisi di trattenermi ancora un po’ a Venezia, perché era una splendida giornata e perché avevo la fortuna di non avere studio per il giorno successivo. 

Così, avvolta dalla bellezza della città che mi ha sempre incantata e dalla speranza di potervi trascorrere il mio futuro, mi dedicai a ciò che mi fa sentire più viva, alla mia linfa vitale: l’arte. Avevo solo l’imbarazzo della scelta in quell’incredibile scrigno di bellezza che è Venezia…Ma la mia scelta, praticamente immediata, ricadde su una meta precisa: la basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari.  Come gliela spiego quell’enorme commozione che mi assalì immediatamente? Quella accelerazione improvvisa del mio battito cardiaco? Quella cascata di lacrime che dovevo scacciare continuamente per riuscire a mettere a fuoco tutta quella bellezza? Quella voglia irrefrenabile di inginocchiarmi al cospetto di tanta divinità? Quell’incedere a passi lentissimi e incerti, resi traballanti dal tremolio delle ginocchia, attratte da una nuova forza di gravità, incredibilmente forte? Quell’incapacità di allontanarmi, privando le mie retine dei colori incredibilmente cangianti che Tiziano aveva dato alle vesti di San Pietro e di Maria nella Madonna di Ca’ Pesaro? Quel desiderio di fondermi con la luce eterna dell’Assunta? Quel fortissimo sentimento di pietas provato in ginocchio davanti al trittico di Bellini? 

Beh, semplice, non glielo spiego, semplicemente perché non si può spiegare.  Da allora mi è successo altre due volte: la prima di fronte alla Primavera del mio Sandro (Botticelli), artista nei confronti del quale, se ben ricordo, lei mostrava gran devozione. Sa, per me lui in soli sessantacinque anni compì più miracoli di quanti non ne abbiano compiuto tutti i santi nella storia dell’umanità. La seconda, molto recente in realtà, all’interno della Basilica di Santa Croce a Lecce, circondata dal raffinatissimo barocco leccese, di cui i miei sensi non riuscivano mai ad essere sazi.  Tutto ciò è infinitamente più grande di me, al di fuori del mio controllo. E da attacchi come questi ne esco decisamente estenuata, priva di energie sia fisiche che mentali. È come se finissi in un buco nero, capace di deformarmi in tutte le direzioni e di restituirmi alla realtà in una condizione di estrema debolezza e stordimento. 

È doloroso. È molto doloroso. Ma è un dolore piacevolissimo, che crea assuefazione.  Io uso la formula: “Si sta male da quanto si sta bene”, ma di solito ricevo in risposta solamente sguardi perplessi.  Allora mi sono detta, cavoli ci sarà un modo migliore per spiegarlo, ci saranno delle ragioni se tutto ciò accade.  E ho cercato, nel mio piccolo, di documentarmi. 

Facendolo ho scoperto che questa sindrome è oggetto di interesse per le neuroscienze e che dagli studi condotti per indagare i possibili meccanismi neurobiologici alla base della sindrome di Stendhal è emerso che, quando un individuo osserva un’opera d’arte, si attivano determinate aree cerebrali, coinvolte nella formazione degli stati emotivi (sia normali che di natura patologica). Ma l’informazione che mi ha riportato indietro a quando, l’anno scorso, lei invitò Carluccio Bonesso per tenerci una lezione sul biopotere e sullo psicopotere, è stata quella relativa ai neuroni a specchio: nel caso della sindrome di Stendhal pare che l’attivazione del sistema dei neuroni a specchio dia origine a un particolare fenomeno per il quale l’individuo che sta osservando un’opera d’arte genera e prova gli stessi stati emozionali che l’autore dell’opera ha voluto esprimere, a livello sia conscio che inconscio, mediante la realizzazione di quella stessa opera. 

Trovo tutto ciò enigmatico e, perciò, molto intrigante.  In memoria delle lezioni sopramenzionate le allego i pensieri che avevo pubblicato allora per condividere quella grande scoperta con i miei amici e le persone più care.  Per questo 2020 le auguro un buon inizio e un buon proseguimento!  A presto, con affetto”. (30 gennaio 2020)

Una meditazione sull’esperienza estetica di Laura: la mia risposta

Dopo qualche giorno di indispensabile riflessione, vista la particolare e impegnativa profondità dell’esperienza comunicata, ecco la mia risposta, inviata il 4 febbraio 2021:

“Mi sorprendi ogni volta. Forse non te ne rendi conto pienamente, ma sei geniale. Ti spiego il perché. Nella tua lettera tu illustri i due tipi di coscienza: quella apollinea e quella dionisiaca. Nelle prime righe esponi con grande precisione la natura contraddittoria e infelice della coscienza apollinea, di cui sei costituita, come tutti noi, del resto. Descrivi meravigliosamente i caratteri della coscienza apollinea: “mi perplime”, perplessità (perché è sempre attanagliata dal dubbio); “sbrigliare” (perché è trattenuta da un freno, da un morso, come le briglie di un cavallo, è inchiodata ai suoi dubbi e perplessità); “libertà vigilata” (perché è sotto il controllo dello psicopotere, non ha piena libertà, ma è sotto regime carcerario, è oppressa dal sistema delle punizioni, anche se temporaneamente libera); “raschiare le pareti” (la coscienza apollinea, altrimenti detta ‘mente’ o ragione – pensiero, è proprio la parte più piccola del nostro cervello e quello che fa è rastrellare dei miseri pensieri, alquanto a lato e superflui rispetto alla vita: eppure, questo piccolo pensiero si concepisce come un “formidabile ego” che Nietzsche critica e prende in giro); “verità insondabile” (ma la verità, l’essenza profonda della vita rimane nascosta ed impenetrabile per questo pensiero – mente piccolo che però si crede grande); “pensare continuamente”, “pensare troppo” (lo dice Kant che questo Io Penso è inesauribile, ma è anche “troppo”, cioè eccessivo rispetto alla vita, inutile e superfluo se è uno strumento che soffoca la vita. Pensare veramente è invece collegarsi alla vita, pensare troppo è soffocare la vita con la ideologia sulla quale specula lo psicopotere per prendere possesso dei nostri pensieri); “vagare con la mente” (non è segno di libertà, ma di inebetimento a cui ci riduce lo psicopotere quando il nostro pensiero è succube della ideologia.; “non riesco proprio a farne a meno” (anche questo è vero, perché non è possibile fare a meno di pensare, non è possibile prescindere dalla coscienza apollinea. Il problema non è certo sopprimerla, ma quale proporzione farle assumere rispetto all’altra coscienza di cui tu parli nel prosieguo della lettera).

Dunque, non bisogna disfarsi dell’apollineo, ma proporzionarlo ed armonizzarlo con la coscienza dionisiaca. Invertire le proporzioni e dare molto più spazio (espandere) al dionisiaco. Invertire i rapporti di predicazione, diceva Feuerbach. Bisogna invertire la prospettiva.

Tu proponi di considerare come oggetto di riflessione qualcosa che riflessione non è: l’estasi mistica. Innanzitutto occorre dire che questa esperienza estatica è una forma di coscienza, ma è diversa da quella apollinea, è una forma di pensiero, ma è diverso da quello apollineo. Facciamo fatica a considerarla un pensiero perché consideriamo pensiero solo quello della mente apollinea, mentre il cervello fa moltissime altre cose oltre a pensare, la qual cosa è una piccolissima parte. E qui subiamo l’influsso del pensiero dominante dell’ideologia (psicopotere) che ci fa credere che sia il pensiero l’attività principale del nostro sistema neuronale. Quindi, l’esperienza mistica è coscienza a pieno titolo, diversa da quella apollinea, ma pienamente coscienza anche essa. E’ una coscienza della vita, non solo una coscienza del pensiero puro. E’ una coscienza integrale, olistica che prende dentro il corpo, i desideri, le emozioni, le relazioni e le azioni.

Il secondo aspetto che voglio sottolineare è che l’estasi è sì elevarsi ed “essere fuori di sé”, ma è anche propriamente un entrare in profondità dentro se stessi. Sembra uno spossessarsi di se stessi, ma in realtà è il vero prendere possesso di se stessi. Noi pensiamo che prendere possesso di qualcosa consista nell’afferrarla o con le mani o con il pensiero. In realtà, in questi due modi si possiede solo la superficie: quella dell’immagine e del concetto, e quella della superficie esterna. Invece, l’estasi è prendere possesso di se stessi nel modo opposto, lasciandoci, cioè invadere dalla vita, lasciando fare alla vita stessa, non essendo attivi, ma essendo passivi, proprio come dicono i Beatles nella canzone Let it be. (lascia che le cose facciano il loro corso, cioè lascia correre, non interferire)

Lascia correre, lascia correre

Ci sarà una risposta, lascia correre

Lascia correre, lascia correre

Sussurrando parole sagge, lascia correre”.

L’estasi è lasciare che la vita scorra nel nostro corpo e nella nostra psiche, nel nostro dionisiaco, lasciarla fluire nella nostra coscienza dionisiaca. Tu parli poi di “sdoppiamento”, ma è solo una forma apparente di sdoppiamento, perché siamo abituati ad identificare la coscienza solo con quella apollinea. Invece che sdoppiamento l’estasi è unificazione, unione con il Tutto, fusione con la vita. Sembra sdoppiamento perché siamo abituati a vivere fuori di noi stessi, mentre l’estasi ci riporta dentro e fino in fondo uniti con noi stessi.

Identifichi, poi, questa estasi mistica con la Sindrome di Stendhal. Tu hai avuto una esperienza mistica estetica. Il problema è che tu non ti sei ammalata, sei guarita, invece. Si considera la sindrome una patologia, ma, in realtà, è uno stato di salute, è una guarigione. Uno stato di coscienza dionisiaca alterata come quella che tu descrivi, non è affatto patologica, anche se può essere dolorosa, bensì è uno stato di piena e totale salute, benessere, felicità. Non è una malattia, ma una guarigione, non è una patologia, ma una cura. Semmai quelli da curarsi sono quelli che non hanno mai avuto queste esperienze mistiche, o che le disprezzano, o che vivono totalmente nell’apollineo e nello psicopotere e dimenticano di essere anche un corpo e una coscienza dionisiaca.

Prima di passare a descrivere l’esperienza tu premetti di essere “commossa” (“mi emoziona”); parli di “potenza” e di esperienza “grande”; hai “paura di banalizzarla”; dici che è l’esperienza più sublimante” della tua vita. Stai descrivendo la sacralità della coscienza dionisiaca: essa è la manifestazione del divino in noi. Non è un pensiero teologico sul divino, ma un flusso di essere, un travaso di energia tra noi e il divino, cioè il Tutto cosmico e l’energia “potente” che lo pervade e di cui noi siamo una parte. La dimensione religiosa è quella più pertinente e consona alla coscienza dionisiaca. 

Tra le due coscienze c’è un rapporto di priorità: prima la vita, prima l’esperienza e poi il pensiero (PRIMUM VIVERE, DEINDE PHILOSOPHARI, DICEVANO A RAGIONE GLI ANTICHI). Mentre l’uomo moderno, da Cartesio in poi, ribalta il rapporto: COGITO ERGO SUM. Quando tu inizi a descrivere la visita a Venezia tu fai agire in primo piano la coscienza dionisiaca e metti in secondo piano la coscienza apollinea. Stai, quindi, cominciando a nutrire la coscienza dionisiaca con il suo alimento più importante, la bellezza, esattamente come facevano i grandi geni quando facevano il Grand Tour in Italia, come Goethe. Mi viene in mente un brano di Guy de Maupassant che va a visitare nel 1885 al Museo di Siracusa la Afrodite Anadiomene (Afrodite che esce dal mare) e che viene chiamata Venere Landolina, appena scoperta da poco, che è il modello, tra l’altro, della “Nascita di Venere” del Botticelli. La tua descrizione mi ha fatto venire in mente quella.

Con l’arte tu nutri la tua coscienza dionisiaca con la vita attraverso l’intensa esperienza emotiva che ne fai. L’arte è il veicolo della vita ed essa mette in moto l’emozione, che va a nutrire la tua coscienza dionisiaca. Le espressioni che usi sono emblematiche. Si parte dalla descrizione del contesto: Venezia come “scrigno di bellezza”; “splendida giornata”; “non avere studio”, cioè esperienza di libertà, assenza di stress, tempo disponibile per sé (è l’essenza della meditazione: anche tu hai fatto una meditazione, come la intendo io, una meditazione con tutto il corpo, in cui la mente non ha prevalso sul corpo, ma si è fatta travolgere e coinvolgere da tutto il corpo); “avvolta” dalla bellezza; “incantata”, sei stata presa dalla speranza ed hai sentito fluire in te la “linfa vitale” che nutre la coscienza dionisiaca e la fa espandere all’infinito. Oppure sei diventata come il feto che, avvolto dall’utero materno, si nutre della linfa vitale della donna che lo genera. Tu sei stata portata in quella chiesa nell’eden paradisiaco del progetto originario, hai fatto l’esperienza dionisiaca della vita nel suo archetipo perfetto, prima che subentrasse l’ideologia del progetto privato che si basa soprattutto sul pensiero astratto della coscienza apollinea manipolata dal potere (psicopotere).

Quella che segue è la più perfetta descrizione di una esperienza dionisiaca estetica:

enorme commozione

accelerazione improvvisa del mio battito cardiaco

cascata di lacrime

voglia irrefrenabile di inginocchiarmi

incedere a passi lentissimi e incerti resi traballanti dal tremolio delle ginocchia

attratta da una forza di gravità nuova

incapacità di allontanarmi

desiderio di fondermi con la luce eterna

fortissimo senso di pietas

semplicemente non si può spiegare

Non si può spiegare, semplicemente perché eri al “cospetto di tanta divinità”. Cioè hai identificato l’esperienza della coscienza dionisiaca estetica come una esperienza del divino in atto (non in potenza). Questa sacralità della vita stessa si manifesta come potente forza attrattiva, come energia di fusione con il Tutto, come desiderio di unità con il cosmo: “desiderio di fondermi con la luce eterna”. E’ una esperienza mistica. Ma non pensarla in termini patologici perché è uno stato di coscienza alterato, ma pienamente salvifico e salutare. E’ un vero processo di auto guarigione emotiva che ti aiuta a vivere felice. E’ una elevazione della coscienza a coscienza cosmica e, dunque, è uno stato evolutivo e superiore di autoconsapevolezza che non è tematizzato ed intellettualizzato (apollineo), tanto è vero che non si sa spiegare a parole. “Senza concetto”, direbbe Kant. Tu hai fatto l’esperienza del sublime e non solo del bello come direbbero i teorici del romanticismo come Kant e Schiller. “Fortissimo senso di pietas”: ancora una volta confermi la natura sacrale di questa esperienza, perché la pietas è la capacità di vibrare in sintonia con il tutto il cosmo e in particolare con gli esseri viventi e le loro sofferenze, perché in loro c’è una scintilla divina, una particella del divino.

La dimostrazione di ciò è che si perdono, quando si fanno queste esperienze le coordinate spazio-temporali: il tempo si sospende e lo spazio si ingrandisce all’infinito. Lo spirito, non quello apollineo-cartesiano, ma quello dionisiaco-nietzscheano, cioè la coscienza elevata e “alterata” (cioè superiore ed evoluta), si libera dalle costrizioni sociali (il “vestito sociale”) e assume in sé la materia, il corpo e si libera in uno spazio-tempo completamente energetico.

Poi la tua narrazione si espande ulteriormente accennando ad altre due caratteristiche di questo tipo di coscienza dionisiaca estetica: “miracolo” ed insaziabilità. L’esperienza di coscienza dionisiaca estetica è esperienza di “miracolo”, cioè di avvenimento eccezionale che accade al di là delle leggi fisiche, giuridiche. E’ al di là del bene e del male, del tempo e dello spazio, al di là del corpo e dello spirito. Miracolo dice anche di qualcosa che accade in te e attraverso di te ma di cui tu non hai per niente il controllo: “Tutto ciò è infinitamente più grande di me, al di fuori del mio controllo”. E’ il contrario del concetto positivistico di scienza e tecnica su cui si fonda la übris dell’uomo moderno: “prometeismo scatenato” lo chiamava Jonas, come tu ben sai. Invece, il miracolo è non far nulla se non desiderare e intensamente sperare, cioè vivere. E allora accade senza previsione né controllo. Viviamo costantemente circondati dal miracolo, ma non ce ne accorgiamo perché la coscienza apollinea, pilotata dallo psicopotere del progetto privato, ci distoglie continuamente dalla vita concentrandoci su quell’ego smisurato che si gonfia così tanto da causarci un sacco di patologie.

L’altra caratteristica è l’insaziabilità: “I miei sensi non riuscivano mai ad essere sazi”. Ancora una volta la metafora alimentare: non a caso il dionisiaco ha come sua espressione più importanti quella palatale e digestiva, il cibo, appunto. Ma qui, nella coscienza dionisiaca emerge il carattere di infinitezza (“insaziabilità”), perché il desiderio è molto più grande di ciò che lo può soddisfare. Il desiderio è sempre “troppo”, è sempre eccessivo; il desiderio è impertinente, maleducato, ribelle, disobbediente e non si lascia mai domare e contenere: anche il “raffinatissimo barocco leccese” è ultimamente inadeguato a saziare il desiderio dei tuoi sensi. E’ per questo che non potrai mai essere felice (cioè sazia) del tutto: perché, come ha notato Schopenhauer, la Volontà di Vivere eccede sempre, in quanto infinita, qualunque tentativo di appagamento, che sarà sempre di carattere finito. E’ per questo che, poi, parli di dolore, dolore grande e, insieme, piacevolissimo. E’ una sensazione molto strana a cui non siamo abituati, perché la coscienza apollinea divide sempre nettamente tutto (per potere dominare: “divide et impera”). Invece, tu fai una esperienza di COINCIDENTIA OPPOSITORUM: le barriere puramente apollinee tra piacere e dolore perdono senso perché il confine è molto meno netto e molto più sottile di quanto la coscienza apollinea pretenda con la sua illusoria attitudine a separare e a distinguere. Il motivo neurologico è ben chiaro: i recettori e i neurotrasmettitori sono gli stessi con sfumature di differenze tra piacere e dolore molto sottili e sfuggenti. C’è ancora molto da indagare.

Accenni, poi, a due fenomeni a cui anche Nietzsche, nella sua esperienza engadinese, alludeva: il senso di estrema debolezza e stordimento e l’incapacità degli altri di comprendere. Questa ultima è dovuta al prevalere della coscienza apollinea che, nella sua tronfia boria pretende, lei che è l’1% delle potenzialità del cervello, di definire e dominare il 99%. Gli altri guardano perplessi perché vivono in una realtà “ridotta”, guardano in modo ottuso e miope. Dunque, non bisogna perdere tempo con i dormienti, ma bisogna fare “squadra” con gli svegli, come dice Eraclito, cioè fare comunità con quelle persone speciali che sono capaci di vivere tutte le esperienze di coscienza, sia apollinea che dionisiaca. Questo non significa che disprezziamo gli altri; semplicemente non ci poniamo obiettivi stupidi, come quello di risvegliarli o cambiarli, tanto, se vogliono svegliarsi, lo possono fare in ogni momento, quando vogliono. Infatti, noi, non dobbiamo fare assolutamente nulla per salvarli: basta che alimentiamo e facciamo crescere la nostra coscienza della vita così che in noi crescerà il fulgore delle cose inconsuete, come lo chiamava Nietzsche. Di solito risulta insopportabile ai più perché sono pigri. Ma se vogliono possono guardarci e ammirandoci possono, per attrazione e imitazione, svegliarsi e crescere anche loro.

L’altro fenomeno è la “estenuazione”, la debolezza, lo stordimento, il dolore. E’ un fenomeno assolutamente normale e molto noto ai neurofisiologi. Dopo un grande evento eccitatorio, come quello che hai sperimentato tu, nel cervello si produce una sensibile quantità di acido glutammico: “Questo neurotrasmettitore è un sottoprodotto naturale della creazione di energia nel cervello. Uno dei prodotti della metabolizzazione del glucosio”. (Fonte web: https://lamenteemeravigliosa.it/gaba-neurotrasmettitore-calma/) C’è bisogno, dunque, che, dopo una esperienza così eccitatoria per il cervello come quella che hai raccontato, intervenga un acido antagonista per contrastare gli effetti di eccesso energetico che potrebbero diventare tossici. Ecco che interviene il GABA, l’acido γ-amminobutirrico: “Una delle funzioni più importanti dell’acido γ-amminobutirrico è la sua capacità di ridurre lo stress e l’ansia”. E’ il neurotrasmettitore della calma e del rilassamento. La natura provvede a riequilibrare là dove esperienze particolari ed eccezionali creano un forte livello di eccitazione, ma anche di energia e di stress. Il GABA ripristina l’armonia nel sistema nervoso.

“E’ un dolore grande ma, insieme, piacevolissimo che crea assuefazione”. In realtà, questo dolore è un eccesso di energia, è una sensazione data da una grande dose di energia presente nel cervello a causa della esperienza estetica. Alti livelli di energia provocano sia alti livelli di tensione neuronale, che producono insieme sensazioni dolorose e piacevoli, sia il rilassamento e la calma successive che spiegano la confusa e contraddittoria compresenza di dolore e piacere. Dolore e piacere hanno gli stessi recettori, gli stessi neurotrasmettitori e viaggiano negli stessi canali neuronali. Ancora una volta si verifica che, nella tua esperienza di estasi estetica, accade la COINCIDENZA DEGLI OPPOSTI di cui parlava Cusano.

C’è un altro elemento molto “intrigante” che, secondo me, contribuisce a spiegare questa strana commistione di dolore e piacere di cui tu parli. Infatti, secondo me, la tu esperienza interessa sia la sfera cognitiva che quella emotiva: è stata un’ondata di alta energia psichica e fisica che ha coinvolto sia il sistema limbico che i neuroni a specchio. Questi ultimi sono coinvolti nella esperienza estetica, mentre il sistema limbico è coinvolto nelle emozioni. Ma recentemente è stato scoperto che esiste anche il neurone a specchio emotivo. Quindi, semplicemente, tu hai fatto una esperienza estetica che non ha coinvolto solo la corteccia cerebrale (la coscienza apollinea), ma anche tutto il sistema emozionale limbico, con coinvolgimento dell’ippocampo, dell’ipotalamo e dell’amigdala. Ma siccome anche gli stimoli nervosi del dolore passano per quei percorsi e quelle zone del sistema nervoso, ecco spiegato perché una esperienza estetica intensissima non si ferma a stimolare solo la corteccia e i neuroni a specchio della vista, ma l’onda energetica mette in moto tutto il sistema emozionale (limbico), compresi i neuroni a specchio emozionali. Per supportare queste argomentazioni cito un brano di wikipedia sui neurotrasmettitori del dolore: “Sempre a partire dal talamo, per mezzo delle vie centrali talamo-limbiche, i segnali algogeni raggiungono il sistema limbico, dove vengono elaborati come elementi emotivi e inconsci. Le più importanti stazioni per l’elaborazione dei segnali algogeni sono: L’ippocampo, che ha un ruolo centrale nella formazione e nell’elaborazione della memoria a breve termine. L’ipotalamo, che controlla fra l’altro l’ipofisi e quindi lo stato ormonale dell’organismo. L’amigdala, che stabilizza l’umore e regola l’aggressività e il comportamento sociale. La proiezione dei segnali algogeni al sistema limbico è la base per l’effetto che ha il dolore sullo stato d’animo (il dolore rende irrequieti e tristi). Tuttavia, il sistema limbico influenza anche la percezione cosciente del dolore (chi è euforico o sotto choc non sente dolore) e viceversa (chi è ipocondriaco o ansioso sente in modo accentuato anche minimi dolori). (Fonte web: https://it.wikipedia.org/wiki/Fisiologia_del_dolore)

Per quanto riguarda specificamente il ruolo dei neuroni a specchio, ecco la base neurologica di supporto alle mie affermazioni, che tu sicuramente avevi già visto, ma che nel mio ragionamento assumono un valore specifico: “Se appare improbabile che visitare Firenze o osservare un’opera d’arte siano eventi specifici e sufficienti a provocare da soli uno scompenso psichico, è molto più verosimile che il viaggio di per sé o la fruizione artistica agiscano in maniera aspecifica su soggetti già predisposti o già affetti da specifici disturbi mentali, attraverso la stimolazione di aree cerebrali coinvolte sia nei meccanismi neurologici che permettono la fruizione artistica (simulazione incarnata-neuroni specchio) sia nella formazione degli stati emozionali normali e patologici (amigdala, striato ventrale, corteccia orbito frontale laterale e mediale, corteccia anteriore del cingolo, sistema dei neuroni specchio, ecc.). Attraverso il meccanismo della simulazione incarnata mediata dai neuroni specchio l’osservazione di un’opera d’arte potrebbe teoricamente generare nell’osservatore in maniera automatica, non consapevole e pre-riflessiva i medesimi stati emozionali consci od inconsci che il suo autore ha voluto più o meno consapevolmente esprimere, in alcuni casi così intensi da generare in soggetti predisposti quadri psicopatologici complessi come quelli osservati nella sindrome di Stendhal”. (Fonte web: https://it.wikipedia.org/wiki/Sindrome_di_Stendhal)

Subito dopo tu, con grande acume e perspicacia, riporti quell’elemento che chiami “enigmatico/intrigante” che è la “ricapitolazione”, nel fruitore estetico, “degli stessi stati emozionali dell’autore dell’opera”. In pratica, ripercorri dentro la tua coscienza apollineo-dionisiaca (che in questa esperienza estetica non sono più divise), tutto il percorso emozionale, sia conscio che inconscio, che ha fatto l’artista nel produrre l’opera. Direi che è un bel colpo, l’avere scoperto tutto questo nella tua esperienza.

Alcune osservazioni conclusive. Leggendo articoli su questo argomento (soprattutto l’intervista su “StileArte” di Giovanna Galli a Graziella Magherini, la psicologa che per prima ha parlato di Sindrome di Stendhal nell’omonimo libro del 1977), mi viene da rilevare quanto segue:

1. C’è una tendenza a considerare patologica questa esperienza su cui, come detto, non concordo affatto, bensì la considero, piuttosto una “abreazione”, una scarica emotiva che ristabilisce l’equilibrio dopo un forte stato energetico-eccitatorio causato dalla bellezza. E’, quindi, piuttosto, un processo di auto-guarigione, seppure particolare (doloroso e insieme piacevole), in cui la coscienza, sia apollinea che dionisiaca, si eleva a stati alterati superiori e poi, necessariamente, ritorna, ma accresciuta e potenziata, agli stati normali.

2. Se è vero che l’esperienza estetica fa fare il percorso emotivo che ha fatto l’artista, è anche vero che l’esperienza estetica ha il potere di far fare anche a te stesso il percorso emotivo dentro la tua esperienza e non necessariamente di tipo traumatico-infantile, come dicono, ovviamente, gli psicanalisti: dunque, l’esperienza estetica è un viaggio profondo e bellissimo dentro se stessi, nel quale si riscopre, come in un Oracolo di Delfi, la propria nuda essenza, priva del “vestito sociale”, fatto di convenzioni, compromessi e copioni da interpretare.

3. L’87% delle persone che ha questa “Sindrome di Stendhal” viaggiava da solo, sul limite di una grande prova nella vita. E’ analogo a quello che è successo a te: solitudine, stage pre-universitario e, in aggiunta, luogo chiuso e circoscritto. Tutti elementi che possono innescare la “Sindrome di Stendhal”. Ma io non condivido la solitudine patologica. Anch’io, per meditare, scelgo luoghi belli dal punto di vista artistico e paesaggistico-naturale. Per me la solitudine non è un problema, anzi, è un fattore positivo, perché permette di essere “eremiti”, cioè recuperare la dimensione dell’eden originario, della condizione paradisiaca intrauterina o edenica, che è lo stesso.

4. Semmai è la condivisione successiva di questa esperienza ad altre (poche) persone amiche capaci di elevarsi a questi stati superiori di coscienza e di comprenderli. Sono contro il turismo di massa. Ma condividere con tre-quattro persone l’esperienza di queste estasi mistico-estetiche o anche in uno studio dell’opera non solo apollineo, mi sembra una direzione interessante di un percorso di nutrimento della coscienza superiore verso la guarigione e verso la salute fisica e psichica. Torcello, Murano, Cappelle Medicee, Villa Valmarana ai Nani (Tiepolo), Ciclo della Vera Croce (Arezzo, Piero della Francesca), Museo dell’Accademia (Venezia), Cappella degli Scrovegni (Giotto – Padova), Palazzo della Ragione (Padova), Palazzo Schifanoia (Ferrara): sono luoghi infiniti ce aspettano solo che qualcuno entri nella loro sfera di influsso, così che l’esperienza estetica diventi una tappa di crescita, di elevazione e di armonia e non un fenomeno patologico e doloroso di cui avere paura e di cui sentire il bisogno di curarsi o di evitarlo, che diventi un abbraccio apollineo-dionisiaco di auto-guarigione”. (Giulio Zennaro, 4 febbraio 2020)

“Mi incanta la maestosità, la raffinatezza, la velata espressività dei volti dell’arte classica”

Il 12 novembre 2021 ricevo da un’allieva un testo meraviglioso e profondissimo in risposta a delle domande che le avevo posto nell’ultima parte di un mio scritto: come sperato, il dialogo si intensifica. Ecco il testo:

“In risposta al suo commento. Sono sempre stata affascinata da tutto ciò che rappresentasse delicatezza e ciò mi ha portata ad amare con tutto il mio animo e cuore l’arte e l’architettura classica e neoclassica. Mi incanta la maestosità, la raffinatezza, la velata espressività dei volti dell’arte classica e sono attratta dal pensiero e necessità degli artisti neoclassici di tornare a seguire i canoni classici per poter esprimere la loro idea di Bellezza ideale (così chiamata da Canova). Nonostante fossero passati così tanti anni, l’uomo è comunque tornato a cercare la bellezza nella semplicità (a differenza degli artisti fiamminghi e dello stile barocco).

Ogniqualvolta mi trovo davanti ad un’opera d’arte il mio corpo si scioglie internamente, vengo travolta da una tempesta di emozioni incontrollabili ma piacevoli; mi si crea un nodo alla gola portandomi quasi al pianto, come se mi stessi sentendo male a causa dell’intensità di queste emozioni. Uno degli esempi delle opere che più ha colpito la mia anima è il Teatro Olimpico di Palladio. Lo vidi per la prima volta tre anni fa. Mai in tutta la mia vita ero stata così estasiata. Non appena mi sono sporta all’interno del teatro e ho visto la scenografia che lo caratterizza, il mio cuore si è fermato e mi si è formato il nodo alla gola di cui ho parlato precedentemente, la testa ha iniziato a girare, ma, dato il mio piacere e benessere, non ci ho fatto eccessivamente caso”.

“Ho smesso di vivere dall’esterno e ho iniziato a vivere dall’interno”

Non posso fare altro che meditare alcuni giorni su quello che quell’allieva mi ha scritto, perché ho bisogno di sintonizzarmi mentalmente con il cosmo di emozioni ed esperienze che costituisce un mondo affascinante. Nei giorni 17 e 18 novembre 2021, scrivo questa meditazione.

“E’ una lettera meravigliosa, lunga e complessa che evoca in me riflessioni sublimi, che hanno bisogno di tempo e meditazione per focalizzarsi. Ti ringrazio per la sincerità e la profondità delle tue parole che indagano il tuo io fondamentale, distinguendolo e liberandolo dall’io parassitario che si attacca come l’edera per risucchiarne l’energia. Percepisco che il tuo io è potente, perché tu hai nella Bellezza il tuo porto sicuro e nei templi dell’arte il tuo posto edenico, paradisiaco.

Queste brevi righe che ti scrivo d’impeto di gioia per quello che mi scrivi, non sono altro che il traboccamento del mio spirito alla lettura della tua riflessione. Come sai, per me inizia un lavoro che consiglio anche a te: inizia il lavoro della meditazione. Io faccio così: prendo il testo, lo scompongo e ne evidenzio i punti che mi parlano del progetto originario. Mi domando, cioè, dove è che è nascosto, nelle cose che tu dici, il progetto originario della Vita. In quello che tu provi e in quello che tu vivi è nascosto un disegno primordiale di bellezza e perfezione che attende solo di essere svelato.

Io ti capisco perfettamente quando parli di angoscia e delusione, perché questa società è fatta apposta per creare noia, delusione e paura. Anch’io rischiavo di venire inghiottito da questi tremendi veleni e incubi. Ma da quando mia moglie mi disse, nell’estate del 2017, di scrivere quello che passava nella mia mente, allora ho cominciato a meditare seriamente facendo yoga mentale, (“mindfullness”) e meditazione mistica, cioè spirituale; ed ho cominciato a scrivere nei miei libri di arte e di filosofia queste riflessioni.

Ah, dimenticavo, ho cominciato ad immergermi anche nei boschi, nei laghi, nelle spiagge, a meditare ai piedi delle maestose montagne delle Dolomiti… Perché questo cosmo armonioso, come le opere d’arte, sono la strada per conoscere se stessi. Anch’io, come dici tu, mi sono dedicato per anni a cercare di compiacere agli altri, che se ne fregavano di me, diventando una specie di “schiavetto” al loro servizio. Poi mi sono accorto che in realtà mi disprezzavano e mi usavano; e più io cercavo di dimostrarmi disponibile verso di loro e più quei capi mi consideravano uno zerbino. Ho imparato due cose: di fregarmene di quello che pensano gli altri e di non cercare di accattivarmi le loro simpatie, rendendomi accondiscendente verso di loro. In questo modo la matrix mi risucchiava tutta l’energia.

Ho così smesso di vivere dall’esterno che impone con violenza i suoi poteri e ho iniziato a vivere dall’interno, cominciando a cercare e amare la mia UNICITA’ e il mio progetto originario. Da quel momento sono cambiato, sono diventato migliore, sempre più libero e sempre più felice e, mi accorgo, anche capace di risvegliare l’io degli altri, almeno di quelli che non sono del tutto “attaccati alla spina” della matrix, persone che staccano la spina del potere da loro io fondamentale, lasciando fuori dalla propria vita l’io parassitario. Queste brevi righe scritte di getto sono solo l’inizio. Comincerò nei prossimi giorni la mia meditazione sul tuo scritto e sicuramente mi susciterà intuizioni e pensieri “cosmici” che ti farò avere tra un po’. Intanto ammiro il tuo grande coraggio”. (Giulio Zennaro 17 novembre 2021)

“Delicatezza, maestosità, raffinatezza, velata espressività dei volti dell’arte classica”

Inizia, dunque, il lavorio della mia meditazione sul testo di un’allieva. Ne deriva un testo ampio che invio in risposta “a rate”, sia per la necessità di conciliare la scrittura con gli impegni della matrix lavorativa, sia per non “intasare” e complicare il suo mondo, delicato e sensibile, che ha bisogno di adeguati tempi di sedimentazione e di “affioramento” dei pensieri profondi. Ecco la prima tranche di materiali che si condensano attorno al nucleo della descrizione del classicismo che ne ha fatto lei in modo mirabilmente pregnante nella sua sinteticità: “Sono sempre stata affascinata da tutto ciò che rappresentasse delicatezza e ciò mi ha portata ad amare con tutto il mio animo e cuore l’arte e l’architettura classica e neoclassica. Mi incanta la maestosità, la raffinatezza, la velata espressività dei volti dell’arte classica e sono attratta dal pensiero e necessità degli artisti neoclassici di tornare a seguire i canoni classici per poter esprimere la loro idea di Bellezza ideale (così chiamata da Canova). Nonostante fossero passati così tanti anni, l’uomo è comunque tornato a cercare la bellezza nella semplicità (a differenza degli artisti fiamminghi e dello stile barocco)”.

“La tua descrizione dell’esperienza estetica è sublime. Potrei paragonarla a quella di Guy del Maupassant che nel 1885 andò a visitare a Siracusa il Museo Archeologico in cui era custodita la “Venere Landolina”. Ti allegherò questa descrizione che è tratta dal suo libro Viaggio in Sicilia. Ci ritornerò tra breve. Intanto ti comunico che quello che ti scrivo ora sono i pensieri che sono sorti in me alla lettura della prima parte della “Risposta al commento” che riguarda, appunto, la tua esperienza estetica. In questa mia risposta tratterò i seguenti punti, seguendo le tue parole:

1. il neoclassicismo come risalita al progetto originario (da te definito “bellezza nella semplicità”);

2. il flusso energetico che caratterizza l’estasi estetica che tu descrivi meravigliosamente;

3. il linguaggio del corpo in cui questa energia si manifesta;

4. un commento al testo di Guy del Maupassant che è un esempio meraviglioso di neoclassicismo;

5. una riflessione su “La bella geometria di Andrea Palladio”, come manifestazione di una delle vette più eccelse di classicismo;

6. una riflessione conclusiva sulla “scuola del piacere e del benessere”, come tu la definisci (perché quello che descrivi è un pezzo esemplificativo di una vera scuola basata sulla bellezza e sulla felicità, come, per esempio, è stata la scuola del Decamerone e quella descritta nel Gargantua) e non può essere che così, perché, se si parte dal progetto originario, se si lasciano fluire le correnti energetiche nel corpo e se si ascolta il suo linguaggio, non può che accadere la scuola della libertà, della felicità, della creatività e della salute (benessere). E’ la scuola che esiste nel progetto originario, è la scuola perfetta.

Il neoclassicismo come risalita al progetto originario (“bellezza nella semplicità”)

“Mi incanta la maestosità, la raffinatezza, la velata espressività dei volti dell’arte classica”: hai descritto la Bellezza in se stessa, quella che Leopardi evocava nell’inno Alla sua donna: “Se dell’eterne idee l’una sei tu… questo d’ignoto amante inno ricevi”. (“Se dell’eterne idee,/l’una sei tu, cui di sensibil forma/sdegni l’eterno senno esser vestita/e fra caduche spoglie/provar gli affanni di funerea vita;/o s’altra terra ne’ superni giri/fra’ mondi innumerabili t’accoglie,/e più vaga del Sol prossima stella/t’irraggia, e più benigno etere spiri;/di qua dove son gli anni infausti e brevi,/questo d’ignoto amante inno ricevi”.

Questi quattro caratteri che tu ritrovi nell’arte classica, e lo sono pienamente, sono i caratteri della Bellezza Pura Originaria che si ritrova nel progetto iniziale dell’umanità e che è stata rovinata dal furto che ne ha fatto il potere (matrix) per sottometterla al proprio progetto privato. Credo che i pittori che abbiano incarnato questi quattro caratteri siano stati Botticelli e Raffaello e come scultori Donatello e il primo Michelangelo, con La pietà e il Davide, e, nella modernità, Canova e Rodin. Questi sono i Maestri che hanno descritto nelle loro opere la bellezza del Progetto Originario (in primis, soprattutto La nascita di Venere di Botticelli): ammirandole si fa un tuffo nell’eden primordiale.

La “delicatezza” è un misto di dolcezza e tenerezza: sono le due emozioni che si provano di fronte ad un bambino, si ritrovano nella madre che abbraccia il bambino e lo allatta; oppure si rinvengono nel tenero abbraccio, nel delicato bacio e nelle dolci carezze degli amanti, come bene emerge ne Il Bacio di Klimt.

Gustav Klimt, Il Bacio, 1907-1908, olio su tela, 180X180 cm, Österreichische Galerie Belvedere, Vienna

La “maestosità” è la gloria, lo splendore e la magnificenza che hanno le cose o le persone UNICHE, è lo splendore della loro unicità e del fatto che brilla in esse la luce dell’origine, prima che l’ombra del potere venisse ad oscurare quella gloriosità. Questa maestosità si trova in qualche racconto, in qualche fotografia famosa e in qualche opera di Piero della Francesca, come ad esempio, la Madonna del parto.

Quest’estate ero a Salerno e stavo seduto con mia moglie in un bar; ad un certo punto è entrato un gruppo di adolescenti; era preceduto da una ragazza quindicenne; era maestosa, camminava a testa alta, ma non era impettita, bensì pienamente sicura e a proprio agio nel suo corpo; si è andata a sedere per prima; era uno spettacolo solo a vederla, non solo per la sua bellezza, ma, soprattutto, per il suo portamento, il suo incedere senza titubanze e timori. Si vedeva dal linguaggio del suo corpo che era una persona libera e felice, che non era manipolata da una matrix, perché la sua mente era un tutt’uno col suo corpo: appariva elegante, calma, armonica, infondeva in chi la guardava rispetto e venerazione. Quando Alice parlava, in una sua lettera, della “mia gloriosità di donna”, intendeva qualcosa di simile a quello che stavo ammirando io in quella ragazza. La camminata nel bar sarà durata da 5 a 10 secondi, ma per me fu un tempo eterno, tanta era l’intensità corporea e la presenza magnetica di quel portamento “maestoso”, come se fosse un’imperatrice.

American Girl in Italy, © 1952, 1980 Ruth Orkin, Stephen Bulger Gallery

La fotografia famosa in cui trovo che questo “portamento maestoso” sia “gloriosamente” rappresentato è la famosa American Girl in Italy del 1951, scattata da Ruth Orkin, una fotografa di 29 anni. La storia di come fu scattata questa fotografia famosa è molto interessante. Ecco come è andata: “Nel 1951, Ninalee Craig era una spensierata 23enne che aveva lasciato il lavoro a New York e si era assicurata un alloggio di terza classe su una nave diretta in Europa. Ha trascorso più di sei mesi a farsi strada da sola in Francia, Spagna e Italia, cosa che poche donne hanno fatto negli anni successivi alla Seconda Guerra mondiale. Viaggiava il più a buon mercato che poteva, quindi è stata elettrizzata quando ha trovato un hotel proprio sul fiume Arno a Firenze dove poteva stare per $ 1 al giorno. Lì, ha incontrato un’altra avventurosa viaggiatrice solista: Ruth Orkin, una fotografa di 29 anni che è venuta in Italia dopo aver completato un incarico in Israele. “Viveva alla giornata, spicciolo su spicciolo”, ricorda Craig. “Abbiamo parlato di viaggiare da soli e ci siamo chieste: ‘Stai attraversando un momento difficile? Ti sei mai infastidita?’ Nel corso di quella conversazione, è nata un’idea: sarebbero uscite insieme la mattina dopo, avrebbero girovagato per Firenze e scattato foto di com’era davvero viaggiare da sola, da giovane donna single. Dalle 10 di mattina a mezzogiorno del giorno seguente, Orkin ha scattato foto di Craig – che poi si faceva chiamare “Jinx Allen”, un nome che ha inventato e assunto perché suonava “emozionante” – ammirando le statue, chiedendo indicazioni, mercanteggiando nei mercati e flirtando nei caffè. “Stavamo letteralmente andando in giro”, ha detto Craig, ricordando lo scialle arancione brillante che indossava quel giorno. Orkin ha catturato la sua famosa fotografia “American Girl in Italy” durante quelle due ore di stupidità e divertimento. (…) Naturalmente, una buona fotografia documentaria accoglie gli spettatori nella scena e invita alle loro interpretazioni su “American Girl in Italy“: la foto è principalmente una celebrazione di donne forti e indipendenti che non hanno paura di vivere la vita”.

(https://www.vintag.es/2014/03/american-girl-in-italy-1951.html)

Quella donna ritratta è, dunque, Ninalee Craig, una ragazza libera e felice di 23 anni. Essa è un centro di energia che la fotografa che l’ha ritratta esprime in termini di dignità, nobiltà, di fierezza, di potente attrazione fisica ed estetica; vediamo che questa donna è un potentissimo attrattore, un magnete potentissimo che attrae e che emana energia nello spazio circostante. Certo, ci vuole un’antenna potente per accorgersene, come quella della fotografa che la immortala, perché questa energia è spirituale, è “sottile”, come dice Paracelso, e non di tipo materiale. Nella foto scattata in Italia la protagonista può essere molto simile alla donna che ha attratto Baudelaire nella poesia A una passante: ci sono quindici uomini ed una sola donna. Ma l’energia che promana da quella donna sbaraglia ed annienta il farlocco egocentrismo maschilista delle quindici comparse: lei è la vera protagonista centro dell’energia cosmica (come la definisce Lou von Salomè), potente attrattore.

Il racconto a cui accennavo sopra è quello che fa Maurizio De Giovanni in un suo romanzo Anime di vetro, Einaudi, Torino 2015, pp. 426-427: “L’attenzione di tutti si spostò su Bianca, che dall’ombra fece un passo avanti, entrando nel cono di luce della lampada che pendeva da soffitto. Ricciardi, che aveva assistito allo scambio di battute con crescente speranza e con sempre maggiore attenzione, per poi rimanere deluso alla fine, si accorse di una nuova luminosità sul bellissimo volto della contessa. Non indossava il solito vestito scuro, ma un abito azzurro abbottonato davanti con una cintura in vita che le fasciava la figura, conferendole una sensualità profonda e sconosciuta, accentuata dalle scarpe col tacco alto. Il cappellino a cloche blu metteva in risalto i riflessi ramati dei capelli. Sembrava un’altra donna. La differenza la faceva soprattutto l’espressione, pensò Ricciardi. Sul volto leggermente truccato brillava una nuova sicurezza. Mai il commissario l’aveva veduta così consapevole della propria bellezza e della naturale eleganza che portava come una corona”. Questa donna sta per fare una clamorosa rivelazione che darà la svolta definitiva al romanzo, alla sua conclusione. Qui la donna compare in tutto il suo portamento glorioso pieno di energia femminile: questa energia è richiamata dall’autore per dare peso a ciò che sta per dire.

Piero della Francesca, Madonna del parto, 1455, affresco 260X203 cm,Monterchi, Museo della Madonna del parto

Questo flash sulla contessa in abito azzurro esprime benissimo il concetto di maestosità che ritroviamo in molte opere del classicismo, come ad esempio, a mio parere, nella Madonna del parto di Piero della Francesca. Anche questa Madonna, come la contessa, indossa un abito azzurro. I capelli della Madonna sono elegantemente e perfettamente intrecciati e raccordati dietro la nuca, lasciando libere le orecchie, il volto e la fronte. Tutto il volto emerge liberamente. Le trecce sono un attributo signorile e segno di cura e attenzione della persona e, inoltre, hanno un significato cosmico, come raccordano i capelli, così uniscono gli esseri. La Madonna, così, è una figura regale di sintesi tra il cielo e la terra (le trecce venivano usate per indicare il contatto tra l’aldiqua e l’aldilà. La veste della Madonna è semplice e maestosa, nello stesso tempo. Essa indossa sotto il vestito una camicia bianchissima, simbolo di purezza, che esercita anche un ruolo di contrasto e complemento cromatico con la veste azzurra. Il colore blu è quello del cielo, cioè il colore del mistero che si manifesta all’umanità in quanto il blu è il colore del cielo che si affaccia verso gli uomini.

Pensiamo, anche, alla maestosità con cui Elisabetta si presentava come regina alla sua corte (nel film omonimo è ben descritta la sua maestosità proprio nei vestiti da lei portati con eleganza sublime.

Raffinatezza” è il carattere delle persone e delle cose che si sono elevate, che hanno fatto un lavoro su di sé per ritrovare la propria originaria grandezza. Non è l’etichetta borghese, fatta di ipocrita esteriorità, ma è lo spirito autentico di chi è in piena armonia col progetto originario e non ha maschere sociali dietro cui nascondersi. Il Dizionario Oxford Languages la spiega così: “Abito di modi o gusti accurati, scelti, diversi da quelli comuni, tali da caratterizzare la personalità e da costituire, anche, un ideale di vita”. E’ il contrario di barbaro, selvaggio: è l’uomo progredito, elevato verso una concezione nobile e colta della vita, appunto, quella che si trova nel progetto originario.

Velata espressività dei volti”: quando dici questo penso ai volti di Botticelli o di Filippino Lippi, ma anche alle Maddalene di Carlo Crivelli. Nel mio blog si trova una lezione che ho fatto sulla Humanitas del Rinascimento vista attraverso dieci opere rinascimentali.

(L’idea di Humanitas degli artisti rinascimentalihttps://diarteedibellezza.wordpress.com/2017/12/05/lidea-di-humanitas-degli-artisti-rinascimentali-1/)

Cosa è questa velata espressività dei volti? E’ il mistero dell’unicità dell’io che si manifesta nel volto e nello sguardo. C’è un “velo” che esprime e nello stesso tempo nasconde, perché quella che appare all’esterno non è l’autentica interiorità, ma un messaggio velato di questa, perché nella relazione del volto agli altri il volto è sempre esposto, è offerto in balia della società che ne potrebbe anche abusare, e spesso lo fa. Il volto è velato, cioè nascosto in parte da un filtro che è il “vestito sociale” o la ”maschera sociale”.  I volti di Leonardo hanno questa enigmaticità, perché l’io fondamentale è facilmente confondibile e mescolabile con i vari io parassitari diffusi dalla società e che noi rischiamo di assorbire se non siamo profondamente interiorizzati.

Con questi quattro caratteri noi individuiamo il classicismo e il neoclassicismo che vogliono risalire al progetto originario dell’umanità. Tu hai dato un’altra definizione stupenda di questa risalita: “bellezza nella semplicità”: Diceva Pericle in un suo discorso citato da Tucidide ne La guerra del Peloponneso: Noi Greci “amiamo il bello, ma con semplicità, e ci dedichiamo al sapere senza debolezza”. (https://www.ribalta.info/il-discorso-di-pericle-sulla-democrazia-ad-atene/) Ecco l’essenza della classicità: essa è amore del bello con semplicità e amore del sapere senza debolezza. Bellezza, sapere, semplicità e forza: il “classico” è colui che “ama” queste quattro cose fuse insieme.

Il flusso energetico che caratterizza l’estasi estetica

Quella che tu hai provato è l’estasi estetica che si caratterizza come un potente flusso energetico di dopamina che, su impulso del cervello, si espande in tutto il corpo. L’estasi estetica assomiglia all’estasi mistica. Sei fortunata a farne esperienza. C’è gente che si rovina (si droga) per avere quelle emozioni. E’ un privilegio, un dono immenso che ti ha fatto la Natura. Il potere (matrix) è terribilmente invidioso della felicità che provano le persone che hanno l’estasi estetica e cerca di condizionarle e manipolarle in tutti i modi, facendo pagare cara la fruizione, oppure sostituendola con droghe, oppure sovrapponendo alle opere mille analisi noiose e fuorvianti per impedire di avere quel “gusto” che hai provato tu.

Ti faccio notare che gli artisti che hanno creato quelle opere non si rivolgevano a tutti, cioè ad una massa distratta e annoiata, quella che spesso invade i musei perché è di moda, m si rivolgevano a persone come te che sono come le corde tese del violino che non aspettano altro che di essere “pizzicate” con maestria per produrre un concerto meraviglioso di sensazioni e di emozioni. Se tu non facessi queste esperienze estetiche, all’arte mancherebbe qualcosa di essenziale. Quei pittori fallirebbero nella loro missione, perché per commuovere e fare vibrare la gente come fai tu, essi sono vissuti e hanno dipinto. La tua emozione/commozione è il completamento di quelle opere: se non ci fosse gente come te, quei capolavori sarebbero imperfetti, mancherebbe loro qualcosa di essenziale. Quel flusso di energia che ha attraversato il tuo corpo, partendo dalla tua mente, a sua volta sollecitata dai tuoi sensi (vista e udito), è quella che proviene dal flusso di vita che gli artisti hanno impresso nelle loro opere. Le hanno estratte dal cosmo quelle energie e le hanno immesse in quei capolavori. Tu, a tua volta, le estrai da essi per farle girare in tutto il tuo corpo. In questo modo il tuo corpo e la tua mente tornano a fondersi con il cosmo, tu torni ad essere parte del Tutto.

“Ogniqualvolta mi trovo davanti ad un’opera d’arte il mio corpo si scioglie internamente, vengo travolta da una tempesta di emozioni incontrollabili ma piacevoli; mi si crea un nodo alla gola portandomi quasi al pianto, come se mi stessi sentendo male a causa dell’intensità di queste emozioni. (…) Mai in tutta la mia vita ero stata così estasiata. Non appena mi sono sporta all’interno del teatro e ho visto la scenografia che lo caratterizza, il mio cuore si è fermato e mi si è formato il nodo alla gola di cui ho parlato precedentemente, la testa ha iniziato a girare, ma, dato il mio piacere e benessere, non ci ho fatto eccessivamente caso”.

Hai descritto magnificamente il flusso energetico corporeo che ha origine da un’esperienza estatica di tipo artistico: “mai ero stata così estasiata”. E’ proprio questa cosa che sto studiando in questi tempio e per questo mi ci soffermo particolarmente. Anche una mia ex allieva, che ora fa Architettura a Venezia, mi ha descritto una cosa simile alla tua, che le è capitata a Venezia ammirando l’Assunta del Tiziano ai Frari. Chi ha un’esperienza estetico-estatica entra in una specie di trance: viene risucchiato in un vortice di energia psicofisica che ha sede nel neurotrasmettitore fondamentale della gioia, cioè la dopamina, prodotta nella pancia su comando del cervello che viene investito da una sensazione visiva particolarmente armoniosa, imponente e delicata che ricorda le sensazioni piacevoli della vita intrauterina e neonatale.

Cioè, in pratica, il nostro eden da cui tutti proveniamo e di cui abbiamo traccia nell’inconscio. L’opera d’arte è capace di risvegliare quei ricordi e di attivare i flussi energetici che li caratterizzano. Da quel momento tu sei attraversata da una corrente di energia (si chiama tecnicamente “scarica dopaminergica endogena”) che dà una sensazione di grande benessere e piacere. Sapere queste cose aiuta a conoscere il proprio corpo per amarlo e venerarlo sempre di più vista la sua potenza e preziosità, visti i tesori che nasconde al suo interno. La distrazione che la matrix induce nella massa fa in modo che la gente non percepisca questi flussi energetici. Tu sei speciale, perché in quei momenti sospendi l’influsso inibente della matrix su di te. Così ci mostri la strada perché possa accadere anche a noi e possiamo anche noi liberarci dall’influsso della matrix.

Gli inglesi per definire questo flusso energetico hanno la parola “feeling”; noi, però, abbiamo due parole, cioè “sentimento” e “sensazione”. Cioè, per noi, il flusso energetico è sia materiale, biochimico ed elettromagnetico (sensazione) che emotivo e mentale (sentimento); invece, per gli anglosassoni è tutt’uno, perché non hanno le parole per esprimere la diversità dei piani corporei che il flusso attraversa e la diversità di stato che assume (stato materiale-biochimico-elettromagnetico e stato emotivo-mentale). C’è il piano materiale dei sensi e quello biochimico ed elettromagnetico della sensazione; e c’è quello emozionale ed infine quello mentale (sentimento). Sono cinque livelli di corporeità che il flusso energetico attraversa fino a coinvolgere la mente travolgendo il cervello e tutti gli altri organi che hai nominato (cuore, gola, pianto, ecc…).

Questo attraversamento di energia per tutto il corpo dà quella sensazione cosmica di fusione con il Tutto di cui parla Lou von Salomé come esempio del femminile, come cifra della potenza femminile. Questa è l’antitesi della “spina del potere” che la matrix inserisce dentro di noi. La fusione con il Tutto non è possibile se c’è la spina del potere attaccata in noi. Staccare la spina della matrix – farsi attraversare dal flusso energetico della Bellezza – fondersi con il Tutto, è il percorso che tu hai descritto e che la fruizione dell’opera d’arte permette.

“Vita e Morte: esperienze esistenziali umane, ultraumane e divine”

Il titolo è molto stimolante. Del resto quando Giuseppe Maggioni si mette in moto per la Grigliata sotto le Stelle siamo tutti portati verso orizzonti di pensiero poco esplorati. Il tema intrigante di questa Grigliata sotto le Stelle del 13 novembre 2021 deve essere affrontato, però, con molto rispetto e prudenza: infatti, si può rischiare di addentrarsi su cose di cui si può sapere poco, oppure male. Su questo il filosofo del linguaggio Wittgenstein ci avverte nella sua settima e ultima asserzione principale: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. (Ludwig WittgensteinTractatus Logico-Philosophicus, traduzione note e introduzione di G.C.M. Colombo S. J., Fratelli Bocca editori, Roma-Milano, 1954) Per evitare di addentrarmi in un terreno minato faccio una escursione sul tema della “Morte” perché trovo quello più inquietante e che non tratterei spontaneamente.

Sulla morte noi abbiamo sia delle certezze che delle assolute ignoranze. Enumero prima le certezze.

  1. Sappiamo tutti che dovremo morire, prima o poi.
  1. Sappiamo che tutti abbiamo paura di morire (sia Kierkegaard che Heidegger parlano a questo proposito di “angoscia”).
  1. Sappiamo tutti che morire non sarà una cosa piacevole e sarà legato a qualche forma di sofferenza anche molto forte e/o lunga.
  1. Sappiamo tutti che la morte interromperà qualcosa, dei legami, delle relazioni, dei progetti sui quali magari ci siamo lanciati con grande passione.
  1. Sappiamo che il linguaggio del corpo e dell’eros non va molto d’accordo con quello della Morte. Freud ha parlato a questo proposito di due principi psichici contrapposti: Eros e Thanatos.
  1. Sappiamo che la nostra vita è orientata verso la finitezza e che la Morte rappresenta il culmine più estremo di questa finitezza. Il filosofo Martin Heidegger, che definisce l’uomo l’”Essere per la morte” per eccellenza, diceva: “La morte è una possibilità di essere che l’Esserci stesso deve sempre assumersi da sé. Nella morte l’Esserci incombe a se stesso nel suo poter-essere più proprio. In questa possibilità ne va per l’Esserci puramente e semplicemente del suo esser nel-mondo. La morte è per l’Esserci la possibilità di non-poter-più-esserci. Poiché in questa sua possibilità l’Esserci incombe a se stesso, esso viene completamente rimandato al suo poter-essere più proprio. In questo incombere dell’Esserci a se stesso, si dileguano tutti i rapporti con gli altri Esserci. Questa possibilità assolutamente propria e incondizionata è, nel contempo, l’estrema. Nella sua qualità di poter-essere, l’Esserci non può superare la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’Esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile. Come tale è un’imminenza incombente eccelsa. La sua possibilità esistenziale si fonda nel fatto che l’Esserci è in se stesso essenzialmente aperto e lo è nel modo dell’avanti-a-sé. Questo momento della struttura della Cura ha la sua concrezione più originaria nell’essere-per-la-morte. L’essere-per-la-fine si rivela fenomenicamente come l’essere per la possibilità eccelsa dell’Esserci caratterizzata”. (M. Heidegger, Essere e tempo, ed. it. a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 2006, §§ 50, 52, 53, pp. 300-301; 309-314; 318)
  1. Sappiamo che la società in cui viviamo ha un atteggiamento contraddittorio nei confronti della Morte che non ci aiuta certo ad orientarci su questo tema: da una parte la società oscura, rimuove e censura la morte, cioè non ne parla mai se non in senso molto superficiale; d’altra parte spettacolarizza la morte e ne fa strumento di terrore sociale (psicopotere) (è la stessa cosa, del resto, che la società fa con il corpo e con l’eros). In realtà, questo atteggiamento contraddittorio ha uno scopo ben preciso: spiazzare e confondere le masse in modo che di fronte alla morte non abbiano una propria posizione chiara e non abbiano un proprio progetto originario (è un caso di bispensiero di cui parla Orwell in 1984).
  1. Sappiamo, infatti, che è vero anche che “la morte fa parte della definizione della vita” (Huizinga) e che nel mondo orientale la morte è percepita come parte del ciclo cosmico e dell’armonia della vita.
  1. Sappiamo con certezza che ci sono persone che sono state molto vicine alla Morte e che poi hanno ricominciato a vivere. Sono le persone che hanno avuto esperienza di pre-morte, come si dice. Ne conosco una, Suor Maria Gloria Riva, che è una critica d’arte con la quale ho contribuito da organizzare una mostra d’arte contemporanea. Ecco la sua testimonianza: “«A ventuno anni ero fidanzata e stavo muovendo timidi passi verso la fede (abbandonata da qualche anno, in seguito a varie vicissitudini). Dopo un viaggio a Lourdes, dove ero rimasta colpita dal clima di preghiera, uscì un sabato sera con il mio fidanzato, diretta in discoteca. Giunti a un semaforo, disposto al verde, attraversammo l’incrocio e dall’altra parte della carreggiata vidi arrivare una vettura a velocità elevatissima. Ci fu lo schianto e poi, per me, il silenzio e il buio». Il racconto è incredibile perché descrive da vicino, con una lucidità ancora ferrea di quegli istanti (oggi ha 58 anni), la sua estrema vicinanza alla morte. «Ebbi la percezione netta di essere alla fine della mia vita e mi abbandonai totalmente a questa drammatica eventualità. Immediatamente percepii, dentro a quell’oscurità, una grande pace e una grande serenità. Si aprì allora al mio sguardo una piccola luce bianchissima che mi veniva incontro dilatandosi. La pulsione beatifica di quella luce era come un richiamo. Ebbi la certezza che Dio era là e che Dio era amore. Desiderai con tutte le forze raggiungere quella luce ma vidi scorrere la mia vita davanti a me come in un film, ed ebbi la totale chiarezza di giudizio su di essa. Quella luce era amore, gratuito, e quella gratuità nella mia vita non c’era. Mi avvolsero, così, due sentimenti contrastanti. Da un lato un dolore grande: l’eternità mi si offriva in tutta la sua bellezza e io non la potevo raggiungere; Dio non mi giudicava, semplicemente si mostrava a me con la sua verità, ero io a giudicarmi e a comprendere tutta la dissomiglianza». «Quando mi rianimarono provai la sensazione del rifiuto della vita: avevo sette fratture, trauma cranico, emorragia interna. Ero una specie di puzzle da ricomporre. Il ricordo di quella luce però fu come la cartina di tornasole e avrei desiderato fin da subito gridare a tutti che non si muore. Mi sono ritrovata spesso a riflettere su ciò che mi era accaduto durante il mio stato di incoscienza. Mi sorpresi nel ricordare alcuni particolari che non riuscirei a ricollocare in ordine temporale, rispetto alla visione della luce. Dopo che mi liberarono dalle ferraglie dell’autovettura, vidi, riconobbi e salutai un caro amico che, in servizio alla croce rossa, era giunto a soccorrermi. Lui mi disse, in seguito, di avermi vista immobile, apparentemente morta. Vidi il mio corpo come dall’alto e inorridii nel vedere una gamba completamente rovesciata rispetto alla direzione naturale, e tutta la la gente sopra il mio corpo». Non solo, Suor Maria spiega come vedeva il suo ragazzo dall’altro lì vicino a lei sulla strada mentre provava un dolore incredibile: «Sono giunta alla conclusione che i miei sensi erano sollecitati solo da relazioni affettive (l’amico, me stessa, il mio ragazzo): Quei mesi cambiarono la mia vita. Come scrisse un giorno André Frossard, Dio era dietro di me; a volte anche davanti a me. Che la vita fosse un dono da non sprecare mi apparve chiarissimo e senza retorica. Non fui più la stessa e scoprii pian piano che il matrimonio non mi sarebbe bastato, sentivo l’urgenza di testimoniare a tutti quello che mi era accaduto. Vedevo con occhi nuovi cose e ambienti cui prima ero avvezza, misurandone tutta la grettezza. Tornai a Lourdes per avere chiarezza sulla vocazione. Ci tornai con il mio fidanzato. Un giorno sfumò un appuntamento che avevamo alla grotta della Vergine (io ero dama, lui barelliere. Avevamo turni diversi e, quindi, pochi momenti di incontro). Presi a camminare e mi ritrovai davanti alla cripta. Non lo sapevo ancora, ma lì si faceva, allora, l’adorazione perpetua». Dopo quel giorno Suor Maria decise di non volersi più separare dall’eucaristia ed entrò, dopo un lungo percorso di voti, verifiche e riflessioni, nell’ordine delle monache dell’adorazione perpetua di Monza. «In monastero maturai gradatamente la consapevolezza che il tesoro dell’Eucaristia era calpestato dagli stessi cattolici. Che c’era una bellezza a tutti incomprensibile e che bisognava aumentare la forza del richiamo. Seguendo dei laici, per incarico dei superiori, mi accorsi che era scomparsa dalla nostra vita quotidiana la forza unificante del simbolo e iniziai così a spiegare la Scrittura e la fede attraverso l’arte».

(https://www.ilsussidiario.net/news/cronaca/2017/11/30/suor-maria-gloria-riva-esperienza-di-pre-morte-mentre-ero-in-coma-dio-era-li-con-me-e-mi-ha-risuscitata/795142/)

“Lei si occupa molto di arte e in passato, raccontando in tv la sua esperienza, ha fatto un cenno ai dipinti di Bosch. Può spiegare perché?
Spiegare un’esperienza di pre-morte come la mia è rischioso. Puoi essere compresa, ma puoi cadere nel banale, nell’occulto, nel new age. Ne ho fatto più volte esperienza. Dopo l’incidente mi imbattei, per caso, nel polittico di Bosch dal titolo Visione dell’aldilà. Lo avevo già incontrato tra i banchi di scuola, senza che mi facesse alcun effetto. Rivedere il pannello, chiamato dai critici empireo, suscitò in me una grande impressione. Compresi che soltanto chi aveva fatto un’esperienza simile alla mia poteva dipingere in modo così puntuale ciò che avevo visto. Nel pannello una luce bianca circolare (simile a una

Hieronymus Bosh, Ascesa all’Empireo, 1500-1503, olio su tavola, Gallerie dell’Accademia, Venezia

ostia) irrompe nel buio, pulsando. Ci sono anime che desiderano raggiungerla, ma alcune ne sono impedite dalla loro oscurità. Nella parte più bassa del pannello, angeli con ali nere frenano queste anime le quali hanno le mani in altro come inabilitare a muoversi. Il volto però è costantemente rivolto alla luce e questa tensione le purifica. Infatti poco più in alto (più verso la luce) angeli dalle ali rosse ( il fuoco purificatore) trattengono anime che ancora guardano la luce, ma che tengono le mani in preghiera. Il loro desidero di Dio li purifica e così si elevano. Alla fine, in alto, proprio all’inizio del cono di luce bianchissima, ci sono anime accompagnate da angeli con ali bianche e con le mani tese verso l’abbraccio. Ho trovato questo dipinto perfettamente corrispondente a ciò che ho vissuto e mi ha confortato vedere come un autore del ‘500, che certo non poteva conoscere terapie intensive e accanimenti terapeutici, abbia dipinto qualcosa di molto vicino a quello che raccontano coloro i quali, per così dire, sono tornati indietro forse per avvertire il nostro mondo materialista che il Paradiso c’è”. (http://www.ancoraonline.it/2018/01/25/parrocchia-santagostino-questa-sera-lincontro-suor-maria-gloria-riva/)

Passo ora a descrivere le cose che non sappiamo della morte e sulla morte.

Per prima cosa non sappiamo né il giorno né l’ora.

  • Non sappiamo poi cosa succeda alla nostra parte energetica e non materiale dopo la morte.
  • Non sappiamo se c’è una forma di esistenza dopo la morte, non sappiamo se ci sia qualche forma di immortalità. Molti sono i ragionamenti sul dopo la morte e sull’immortalità dell’anima e il più celebre di questi è quello di Platone del Fedone. “Platone ci fornisce nel Fedone, una “prova regina” dell’immortalità dell’anima. In questa prova in sostanza si fa il seguente ragionamento. Collochiamo in una tabella immaginaria un certo numero di sostanze o “essenze”, assegnando a ciascuna una determinata “proprietà” (ossia una qualità tale che, se viene eliminata, l’essenza ne risulta distrutta).

essenze: proprietà
neve: fredda
fuoco: caldo
tre: dispari
anima: viva

L’argomentazione platonica è sostanzialmente questa. Ciascuna delle essenze indicate non può patire la proprietà contraria a quella indicata (per esempio la neve diventare calda, il fuoco freddo, il tre pari), perché, se costretta in qualche modo a perdere la sua proprietà, sarebbe distrutta. Nel caso dell’anima, che è la vita del corpo, dunque per definizione qualcosa di “vivo”, si potrebbe pensare che possa appunto venire distrutta, come le altre essenze (che non sono eterne). Ma, mentre le altre essenze possono venire distrutte, “pur di” non patire la proprietà contraria alla loro, l’anima, se venisse distrutta, patirebbe esattamente quella “morte” che non può, per definizione, patire, perché è appunto la proprietà contraria alla sua! Dunque l’anima non può, da viva che è, diventare morta, così come il fuoco non può diventare freddo. L’anima è quindi “immortale”. A ben vedere, si tratta di un’applicazione della dottrina di Parmenide, analoga a quella che ne fa Epicuro, quando dice: “Quando ci sono io, non c’è la morte; quando c’è la morte, non ci sono io” (ciò che è è e non può non essere, dunque non può mai cessare di essere). Epicuro, però, non trae tutte le conseguenze dalla sua dottrina, mentre Platone lo fa, deducendone che l’anima, in quanto per definizione “è” e “vive”, non può morire, restando anima”.

(https://www.platon.it/storia/dalla-matematica-logica-alla-dialettica/la-dialettica/il-metodo-socratico/largomentazione-per-assurdo/limmortalita-dellanima/#:~:text=L’argomentazione%20platonica%20%C3%A8%20sostanzialmente,la%20sua%20propriet%C3%A0%2C%20sarebbe%20distrutta)

  • Fondamentalmente non sappiamo perché si muore, sappiamo che si muore, possiamo constatare che è così, ma ci è precluso la conoscenza del motivo.
  • Non sappiamo in cosa la vita e la morte siano due progetti contrastanti: non possono esistere contemporaneamente, dunque, dall’uno non si può sapere cosa è l’altro. Perciò è inutile parlarne, è fuorviante e conviene prendere il problema da un altro punto di vista. Che è questo: invece di parlare di vita e di morte nel senso che dà il potere a questi termini, perché non parliamo di quale esperienza abbiamo noi della vita? Cioè, perché non inventiamo noi il senso nuovo di queste parole non confuse ed equivocate dal potere?

A tutti questi problemi l’umanità ha cercato di trovare soluzione in seimila anni di storia. E cosa ha trovato? La stessa soluzione che avevano già trovato gli Egizi seimila anni fa: nessun progresso e nessuna soluzione definitiva da allora, né nessun passo avanti significativo: la vita oltre la morte procede nello stesso modo in cui procedeva prima. Una vita oltre la morte pensata come la vita prima della morte. Le tombe sono piene di suppellettili e di oggetti che servono per il viaggio nell’aldilà, pensato come un prolungamento del viaggio nell’aldiqua. E’ da seimila anni che si ruota attorno a questo punto senza nessun progresso: è per questo che le religioni non destano più nessun interesse: stanno dicendo da seimila anni la stessa cosa. Cioè non fanno altro che immaginare il dopo la morte come un viaggio uguale o simile a quello della vita. Credo che lo scarso interesse della risposta delle religioni consiste nel fatto che le religioni non propongono nessuna soluzione originale rispetto a quella che propone il potere: una vita grama nell’aldiqua e una vita mediocre nell’aldilà. Feuerbach e Kant sono quelli che confermano e attestano questa visione dell’aldilà come proiezione dell’aldiqua, di un aldiqua depresso che il potere manipola e domina. Aldilà ci sarà una consolazione, dice Feuerbach e Kant sostiene che l’immortalità è necessaria per correggere le contraddizioni e le storture dell’alddiqua, cioè l’impossibilità di avere nell’aldiqua una autenticità etica, una vera libertà.

In pratica tutti ammettono che l’aldiqua è pieno di problemi e proiettano nell’aldilà la soluzione, ma il massimo che riescono ad immaginare è un aldilà più o meno simile ad un gramo aldiqua. Nessuno si accorge che la questione è inquinata fin dall’inizio: c’è qualcosa che non funziona. Questa visione è quella che va bene al potere. E’ la visione del potere che tutti hanno assimilato, esattamente come quella del mito del peccato originale e come quella dell’inferno, del purgatorio e del paradiso, che è come dire i Campi Elisi, l’Averno, il regno di morti, e così via.

Questo proiettare nell’aldilà la soluzione dei problemi dell’aldiqua, è una vecchia scappatoia, un vecchio trucco, una soluzione farlocca e illusoria che soffre degli stessi problemi della vita nell’aldiqua, è un colossale inganno del potere che serve per non parlare mai della questione veramente importante: ma la vita che viviamo nell’aldiqua prima della morte, la vita che ci concede il potere, che razza di vita è? “Peccato però che lei non vivrà! Sempre che questo sia vivere”. “Sempre che questa sia vita”, dice il commissario di polizia Gaff in Blade Runner. Il problema è che la vita che il potere ci dà non è vita, è già una morte essa stessa, è già la negazione della vita. Nessuno che riesce a fare il salto di qualità, nemmeno Dante che immagina la vita vera anche lui dopo la morte, nel paradiso. Ma a nessuno che venga in mente che la vera morte è questa vita e che la vita vera non ci è mai stata data dal potere, mai ci è stata concessa dalla società e che la vita dopo la morte non è che la fotocopia sbiadita e scolorita di questa vita farlocca che il potere ci ammannisce? Parlare della morte è, dunque, una fiaba di sfogo, una via di fuga, un modo per sviare l’attenzione, uno specchietto per le allodole, per non parlare mai del vero problema: che il potere vuole condizionarci anche l’immagine che abbiamo dell’aldilà, dell’altrove, perché non vuole darci nessuna scappatoia, nessuna possibilità di vera vita nell’aldiqua. Illudendoci nell’aldilà ci toglie la possibilità di aprire gli occhi nell’aldiqua e di liberarlo dal dominio del potere.

Io penso che Wittgenstein abbia ragione: la morte noi non possiamo conoscerla perché o ci siamo noi e non c’è la morte o c’è la morte e non ci siamo noi (Epicuro) e se non possiamo conoscerla è inutile parlarne, e, dunque, conviene tacere. Invece, converrebbe parlare e molto della vita secondo il progetto originario. La vita che viviamo nel sistema della matrix non è vera vita secondo il progetto originario, bensì è una morte lenta, una vita apparente, una vita che non è vita, una vita da zombie. E’ questo il vero problema della morte, non quello dell’aldilà, ma quello di un aldiqua in cui ci è data una vita che è privata dell’energia vitale, è una vita da morti che camminano, da morti viventi come nel film di Romero.

La vita secondo il potere è una specie di morte. Invece la vita vera dove la troviamo? Nel progetto originario che non è dopo la morte, ma prima dell’avvento del potere. Ecco il grande equivoco: fare credere che il potere non c’entri nulla. Questo ha lanciato il sasso e nascosto la mano, si è camuffato, mimetizzato. Ha confuso le carte, per cui cerchiamo la soluzione del problema in direzione sbagliata. Il problema è come viviamo questa vita qui: è il problema della rinascita qui, cioè del conquistare un livello di vita vera qui, rinascere a vita vera fin che sei vivo e non lasciare al potere un solo respiro della vita che vivi qui, mentre sei vivo. Questa è la vera lotta, la vera impresa.

Le persone che hanno avuto una esperienza di premorte (NED) sono quelle che si avvicinano di più alla paradossalità della situazione in cui ci troviamo: queste persone tornando in vita dopo un coma, riescono a vedere la vita da un punto di vista diverso. Sono rinate, hanno avuto una rinascita, perché si sono impossessate di un senso autonomo, personale, proprio della vita e non vivono più una vita da automi, telecomandati da una matrix. Le persone quasi morte sono ora le persone più vive perché si sono impossessate della loro vita e la hanno strappata dalle mani del potere che prima deteneva sia la visione della vita che quella della morte. Ora esse si sono appropriate della loro immagine della propria vita e non se la lasciano influenzare dal potere. sono rinate, e sono un modello di rinascita anche per tutti noi.

Quello che a me interessa non è la vita che mi ammannisce il potere e non è la morte (e non mi interessa a maggior ragione il concetto di morte che il potere vorrebbe inculcarmi) perché non ne so quasi nulla se non che ho una esigenza di dare un senso al tempo che mi separa da essa. Quello che conta veramente è la mia rinascita al senso originario della mia vita strappatomi subdolamente dal potere. Quello che conta è la rinascita, il nascere di nuovo al senso vero della vita che è quello che solo io posso dare e scoprire e che è nel DNA del progetto originario della vita che ho sperimentato nella mia vita intrauterina. Rinascere nel progetto originario della vita uterina è il vero senso della vita e quello che dà alla morte un senso finalmente interessante, perché non è per niente quello che interessa al potere. Trovo che quello che dice Sibaldi nel suo libro Resuscitare sia estremamente vicino a quello che intendo dire e che sia molto vicino al progetto originario sulla vita.

“Igor Sibaldi nel suo libro “Resuscitare” riporta in luce una tecnica di resurrezione che la nostra religione, oggi, ha dimenticato. La confronta con le più recenti teorie della fisica quantistica, e mostra come applicarla. Oggi la resurrezione è, per alcuni, un dogma e, per altri, un mito antico.

Antica lo è di sicuro: i primi a immaginarla furono gli egizi, quattromilacinquecento anni fa. Ma non la immaginarono soltanto: scoprirono che esistono universi paralleli in cui ciò che è passato vive ancora, e spiegarono come giungere fin là, invertendo il corso del tempo. Tutto sta nel non rassegnarsi all’idea che il tempo sia irreversibile: allora, nemmeno la morte appare come un fatto definitivo ma come una sfida, un ostacolo da superare. Ci si lascia guidare, all’inizio, dal coraggio di ricordare chi e ciò che si è perduto: così si apre la via. Poi, mentre torna indietro nel tempo, la mente cambia, si amplia, si libera da limiti che non sapeva di avere, fino al momento in cui due dimensioni – il presente e il passato – entrano e rimangono in contatto, in quello che i fisici contemporanei chiamano un varco spazio-temporale e che duemila anni fa si chiamava “eternità”. Lì incomincia la resurrezione.

“Credere nell’immortalità dell’anima è sempre stato facile, come un capriccio. I capricci non richiedono particolare intelligenza: solo tenacia e sordità alle obiezioni. Tanto, nessuno può provare che una qualche versione dell’aldilà non sia vera. Perciò sono così numerose. Almeno una per ogni religione, più altre fornite da mistici d’ogni genere. Credendoci, ci si sente in accordo con miliardi di persone. E – cosa che ha avuto anche questa il suo peso – nessuna autorità ha da ridire. Anzi, alle autorità torna utile, perché quanto più la gente dà importanza all’aldilà, tanto meno ne dà all’aldiquà e sopporta meglio le condizioni in cui la si obbliga a vivere. Perfino i ribelli, quando sperano in una ricompensa ultraterrena si lasciano sconfiggere più rapidamente, perché in loro la voglia di morire diventa più forte della voglia di vincere. Così, la fede nell’immortalità ha sempre risolto più problemi di quanti ne creasse.

Per le resurrezioni, invece, vale il discorso opposto. Sono problematiche, innanzitutto perché riportare in vita qualcuno è sempre un atto sovversivo. È riaprire conti già chiusi. A sentirne parlare come di una possibilità, qualsiasi re avrebbe temuto che si resuscitassero i suoi predecessori o gli avversari che aveva fatto uccidere. E se si trovasse il modo di far risorgere anche soltanto un periodo della vita, qualsiasi persona perbene vi vedrebbe un pericolo per le carriere, per le famiglie.

Resuscitare in una dirigente di banca il suo talento di attrice, soffocato durante l’adolescenza per volere dei genitori? Resuscitare in un nonno la sua passionalità di quand’era ragazzino? Che guai ne verrebbero. Il presente è tanto più solido quanto più è certo di aver ucciso il passato. Così, anche dove la gente crede nella resurrezione (ebrei, cristiani, islamici) ben pochi la vogliono. Si preferisce pensare che sia toccata solo a qualche essere divino, salito poi rapidamente in cielo. O che tutti saranno resuscitati, semmai, alla fine del mondo. Non prima.

Fino ad allora, si vuole che nel ragionare sul passato valgano due regole definitive: una è: il passato rimane indietro, mentre noi possiamo soltanto andare avanti e l’altra: ciò che è nel passato non si cambia. Appunto perché non possiamo più raggiungerlo. Queste due regole non impediscono di credere che dopo la morte si viva ancora, ma si direbbero fatte apposta per escludere la resurrezione. Ma il fatto stesso che queste due regole ci siano, così perentorie, fa pensare che nascondano qualcosa d’importante. Qualcosa che si desidera tanto.” (https://www.ilgiardinodeilibri.it/libri/__resuscitare-igor-sibaldi-libro.php)

Il problema non è l’immortalità dell’anima, la questione non è la vita dopo la morte, ma la vita prima della morte, la intensità e la profondità della vita che viviamo prima della morte. Se la riscattiamo e la liberiamo dalla morsa mortifera del potere, allora è come se rinasciamo un’altra volta, cioè ritorniamo nel progetto originario della nostra vita edenica, intrauterina.

La Creazione di ogni genere di animali

Il Creatore qui crea ogni genere di animali della terra”

Godiamoci il testo della Genesi che descrive la creazione degli animali e degli uccelli: “Dio disse: «Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo». Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati, secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona. Dio li benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra». E fu sera e fu mattina: quinto giorno. Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e animali selvatici, secondo la loro specie». E così avvenne. Dio fece gli animali selvatici, secondo la loro specie, il bestiame, secondo la propria specie, e tutti i rettili del suolo, secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona”. (Gn 1, 20-25)

La scultura di Nicolò è la trasposizione letterale di questo testo: il riquadro scultoreo brulica di animali e uccelli che riempiono tutti gli spazi così da rendere l’idea di uno straripamento di abbondanza e l’idea della potenza di moltiplicazione, di generazione, una sovrabbondanza di vita. Ma, ovviamente, non possiamo fermarci ad una semplice descrizione, perché i testi antichi sono codici simbolici e mentre descrivono un’immagine vogliono nello stesso tempo comunicare le password per decifrare i significati psichici del cambiamento per arrivare a fare la creazione, esattamente come è nato tutto. La Genesi è il codice per imparare a creare il proprio mondo e il mondo stesso.

Nicolò, La Creazione degli animali e degli uccelli, 1138, pietra d’Istria, rilievo sulla facciata della Basilica di San Zeno, Verona

La Genesi, infatti, è un manuale di formule precise e di istruzioni simboliche che insegna a fare quello che sta descrivendo. Se la Genesi descrive la creazione di un mondo, in questo codice si impara a creare un mondo. Si impara a creare il proprio mondo, a creare quello che si fa ogni giorno, creando la narrazione di quello che si fa ogni giorno. La Genesi insegna come si fa a intervenire nella creazione del mondo circostante e come si fa a intervenire nella creazione del proprio mondo, passo per passo. I sette giorni della creazione sono tappe dell’attività della nostra psiche e della nostra mente che danno forma alla realtà intorno, cioè sono narrazioni di questa realtà. Ognuno di noi vive nel suo mondo, quello che vede e capisce del mondo lo decide lui, oppure la matrix in cui è immerso, tramite la dissonanza cognitiva. Questo mondo non ha una sua esistenza autonoma, bensì lo creiamo noi continuamente.

La Genesi è una narrazione simbolica che descrive il metodo che ti permette di imparare a creare un mondo, a creare il proprio mondo e a modificarlo se lo desideri. La capacità di creare si estende dal mondo esterno ai singoli oggetti come a pure il proprio modo di vederli. Di tutto questo noi abbiamo acquisito fin dall’infanzia una modalità di creazione che dipende dall’ambiente sociale che si è sostituito e sovrapposto alla nostra autonoma capacità di creazione, lo diamo per scontato e lo subiamo senza accorgercene. La Genesi insegna a riappropriarsi della propria capacità di creare il proprio mondo. Non è un’arte da insegnare agli altri, quanto piuttosto da imparare per se stessi, come facevano gli alchimisti che non avevano molto interesse a divulgare le loro conoscenze. Occorre solo usare spesso questa conoscenza senza divulgarla troppo in giro, solo a chi può capire ed è veramente interessato. E’ meglio imparare a usare le cose piuttosto che a dirle.

Tornando a Nicolò mi colpisce il fatto che questa scultura anticipa l’arca di Noè: gli animali e gli uccelli sono incapsulati e inquadrati come se fossero già dentro un’arca. Vediamo quali animali sono contenuti in quest’arca originaria: in basso c’è il leone e il cavallo; sopra la capra, il cervo, il cane e il toro; sopra ancora il cane, il cavallo e l’ariete; sopra ancora cane e lepre, cavallo lupo asino e grifo. Tra gli uccelli si riconoscono l’aquila e il gufo, la colomba e l’anitra, un airone e un gallo, un cigno e altri più difficili da identificare.

“La scena è costituita di tre sezioni; a sinistra si trova Dio, a destra in basso gli animali che abitano la terra e sopra, in una stretta fascia, gli animali del cielo, gli uccelli. Niccolò nel rappresentare Dio scolpisce un’imponente figura, molto più rilevata rispetto alle altre, e occupa tutta l’altezza del riquadro. È come se si fosse voluto far presente l’immensità del Divino ponendone i piedi a terra, all’altezza degli animali terrestri scolpiti a lato, e il capo nei cieli, dove sono gli uccelli. Il Creatore è caratterizzato dal nimbo crocifero, e colto nell’atto di benedire gli esseri cui ha appena dato vita col compito di popolare il mondo. La morbida veste drappeggiata si stringe sul robusto fianco destro ed è trattenuta davanti dalla mano sinistra; la mano destra è alzata a benedire. Il viso è di profilo e i capelli ondulati scendono ordinatamente sulle spalle”.

(http://www.arte-argomenti.org/saggi/nicolo.html)

La descrizione degli animali è parte integrante dell’eden e del progetto originario: gli animali sono una rappresentazione del progetto originario stesso. Gli animali e gli uccelli sono caratterizzati dal fatto che essi sono già quello che devono essere: non devono diventare qualcosa d’altro. In essi la loro potenza coincide con l’atto, con quello che sono in atto, per quel che riguarda lo sviluppo della propria essenza. Essi seguono unicamente un programma predeterminato. Questo elemento è tutt’altro che un fattore di inferiorità, bensì, dal punto di vista del progetto originario, è un fattore di completezza: essi sono già completi e perfetti in se stessi. Essi non sono mai usciti dal Paradiso terrestre, a differenza dell’uomo. Essi sono ancora nell’eden: vivono costantemente dentro l’utero della natura così come sono stati creati.

Darwin dice che animali e piante hanno la “competenza senza la conoscenza”: ciò significa che essi sanno già benissimo quello che devono fare senza doverne essere coscienti, senza darsi le ragioni per farlo. La natura stessa li guida. Così era anche per l’uomo nel progetto originario e l’immagine di Nicolò mi suggerisce questa abitazione degli animali e degli uccelli dentro l’arca o l’utero il grembo della natura primigenia. Essi vi sono ancora attualmente dentro. L’uomo no. L’uomo deve rispettare i limiti di velocità, deve prenotare il ristorante se vuole mangiare: gli animali viaggiano sempre alla massima velocità senza pericolo di multe e non devono prenotare nessun hotel, perché vivono alla luce del progetto originario come era fin dall’inizio. “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi”. (Mt 8, 20);“Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro”. (Mt 6 26- 29)

Questo comporta che gli animali hanno paura, ma non hanno ansia per il futuro: la loro paura è immediata quando c’è un pericolo, ma si spegne immediatamente appena il pericolo è passato. Essi vivono dentro l’armonia cosmica già da ora e lo sono sempre stati: si spaventano, ma non entrano in ansia e non covano preoccupazioni per il domani.

Per l’uomo evidentemente non accade così: l’uomo non è più capace di gustare l’armonia originaria. Vive nell’ansia generata dal sistema delle regole e delle relative trasgressioni, sensi di colpa e punizioni. L’uomo vive dentro una matrix, gli animali non sanno cosa sia la matrix, a meno che non vengano catturati dall’uomo. Gli animali non sanno creare prigioni, zoo, gabbie, campi di detenzione, non sanno creare sistemi di punizione, non giudicano i loro simili. Essi vivono in una armonia cosmica anche quando uccidono per nutrirsi, per difendere il territorio o combattono per accoppiarsi: lo fanno con totale spontaneità e senza nessuna malizia. Gli uomini, invece, sono caratterizzati dalla preoccupazione generata dall’insicurezza, bene descritta dalla favola di Igino, ripresa da Heidegger in Essere e tempo.

Ecco la favola seguita dall’interpretazione di Heidegger: “Favola di Igino (I sec. a.C.- I sec. d.C.) La “Cura”, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La “Cura” lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la “Cura” pretese imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle fosse imposto il proprio. Mentre la “Cura” e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vive lo possieda la “Cura”. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra)”. (Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1982, p. 242).

“La cura, in quanto totalità strutturale unitaria, si situa, per la sua apriorità esistenziale, “prima” di ogni comportamento e di ogni situazione dell’Esserci. (…) L’espressione cura denota un fenomeno ontologico – esistenziale fondamentale”. “L’essere dell’esserci si rivela come cura. Essa consisterà nell’attestazione che l’esserci fin dall’antichità quando prese in esame se stesso, si interpretò come cura benché soltanto in modo preontologico”. (Ivi, pp. 242. 245. 229-30)

Nel vangelo viene espresso lo stesso concetto: “Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?  Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”. (Matteo 6,25-33)

Gli animali possono essere maestri di metafisica, ma questo lo si trova nella Genesi e non nei libri di metafisica. La metafisica è una creazione molto umana, molto antropomorfica, molto antropocentrica. Gli animali sono molto interessanti come punto di vista, purtroppo di loro sappiamo poco; siamo appena all’inizio della scoperta del mondo animale, grazie all’etologia, alla neuropsicologia. Non è vero che gli animali siano così tanto inferiori a noi dal punto di vista evolutivo, semplicemente si evolvono diversamente. Gli animali

Tintoretto, Creazione degli animali, dei pesci e degli uccelli, 1550-1553, olio su tela, Gallerie dell’Accademia, Venezia

non hanno le nostre certezze, non hanno i nostri vincoli, gli orari che ci impone la civiltà, non hanno gli orologi, i telefoni, le tasse, internet, il governo, non hanno tutta una serie di ansie che per noi sono la normalità. Gli animali sono un punto di vista differente: niente è più utile per una persona che trovare punti di vista diversi. Immagina di essere un gatto, un delfino, una rondine e di chiederti: ma perché vivo così? Essere una rondine, per esempio, mi aiuterebbe a chiedermi se incunearmi ogni mattina nel traffico della città sia proprio la cosa migliore che si possa fare. Perché se la vita è una sola e io posso fare qualsiasi cosa, io continuo a fare quello che ho sempre fatto? Ad esempio, “il gatto influisce sull’umore, sull’autostima, sui piccoli piaceri quotidiani; insegna il valore del gioco e del riposo, dell’azione e della riflessione e, soprattutto quando è cucciolo, fa morire dal ridere. Ma cos’altro può insegnare un gatto? Moltissimo. Allo stesso modo in cui la casa cambia radicalmente prima e dopo il gatto, anche l’essere umano si trasforma grazie alla sua presenza, e trova dentro di sé risorse insperate”.

“Gli animali non hanno le parole. Ma non è che non hanno le parole perché non ci siano ancora arrivati: è perché se ne sono stufati già da un pezzo. Con le parole puoi innanzitutto limitare la realtà, poi puoi raccontare tante bugie e perdere tanto tempo a scoprire se quello che ti parla dice la verità o no. Ma non hai idea del tempo che perdi a vedere se tu dici la verità a te stesso o no.” (Sibaldi: https://www.youtube.com/watch?v=HFqKLeT_vVA)

Gli animali rappresentano il punto di vista dell’immaginazione che fa a meno delle parole che sono state prese in ostaggio dalla civiltà. Da questo punto di vista dell’immaginazione si può intravvedere il punto di vista originario sulla realtà senza i filtri imposti dalla società che creano tutte le ansie e le preclusioni a cui siamo soggetti. Nella formella di Nicolò ci viene presentata questa forma del progetto originario che è costituita dagli animali i quali pur evolvendo sono rimasti tali e quali come erano nell’inizio della loro evoluzione dal momento che non devono fare nulla che implichi una volontà e una libertà. Ciò li colloca in una condizione edenica come il feto nell’utero materno. Per me essi sono simbolo di questa condizione iniziale: certo io devo esercitare la ragione e la libertà per diventare quello che devo essere e quello che sono in potenza e che ero nel progetto originario, ma gli altri animali mi indicano la strada, cioè essere naturale, essere come la natura dice, così come loro lo sono da animali, io devo esserlo da uomo, cioè da animale razionale. Essi sono liberi dalla matrix, il problema dell’uomo è liberarsi dalla matrix ricercando continuamente il proprio progetto originario. La creazione degli animali e degli uccelli di Nicolò è per me una lezione da apprendere per elevarmi alla mia origine. Pertanto essa rappresenta una tappa interessante del mio cammino iniziatico verso l’origine. (Giulio Zennaro, 7 novembre 2021)

La Cavalcata infernale di Teodorico di San Zeno a Verona

Tra “memento mori” e avvertimento sulla frenesia del potere e dell’avidità

Nicolò, La Cavalcata infernale di Teodorico, 1138, pietra d’Istria, rilievo sulla facciata della Basilica di San Zeno, Verona

Niccolò, La Cavalcata infernale di Teodorico, 1138, pietra d’Istria, rilievo sulla facciata della Basilica di San Zeno, Verona

“Sulla facciata della chiesa di San Zeno, a destra del bellissimo protiro sono murati alcuni rilievi marmorei raffiguranti episodi del Vecchio Testamento e due scene di caccia, pure firmati da Niccolò. Le due lastre del registro inferiore riportano il tema della Caccia infernale di Teodorico, che riprende un’antica leggenda germanica, fatta propria dalla tradizione cattolica e da quella veronese. Si racconta tuttora che il re ostrogoto stesse facendo il bagno, quando vide passare un magnifico cervo al galoppo. Il re si fece preparare in fretta dai servi una cavalcatura per inseguirlo e partì precipitosamente seguito dai cani, ma questi ultimi non riuscirono a tenere il passo col nerissimo cavallo. Teodorico si rese conto di trovarsi in sella ad una creatura demoniaca e cercò di scenderne, non riuscendovi realizzò, in preda al terrore, che la spaventosa bestia l’avrebbe trascinato all’inferno. Così egli scomparve, e non fu più visto. Nel primo riquadro Teodorico, coperto da una tunica, suona il corno da caccia in groppa all’elegante animale, lanciato al galoppo; uno dei levrieri è tra le zampe del destriero. Nel secondo vediamo il cervo, già addentato sul dorso da uno dei cani, e sotto di esso un altro levriero che nelle intenzioni dell’artista naturalmente doveva essergli affiancato. A destra una figura antropomorfa, il demonio o un suo servo (nota 1), sta in piedi sotto un arco, probabilmente una porta infernale, al sommo della quale sono chiaramente incise delle fiammelle. Questo essere tiene in mano un bastone o una pala e sembra avere i capelli in disordine e una barba ispida, ma lo stato di degrado della pietra non permette di osservare altri particolari”.

(http://www.arte-argomenti.org/saggi/nicolo.html)

“La leggenda della fine di Teodorico è magnificamente ritratta in un bassorilievo della facciata della basilica di San Zeno che sicuramente ispirò la famosa poesia del Carducci. La pietra in cui è scolpita ha un alto contenuto di zolfo e in passato, sfregando un sasso sulla suggestiva scena, le madri di Verona facevano sentire ai loro figli indisciplinati “l’odore dell’Inferno”. A furia di sfregare la pietra del bassorilievo si è ricoperta di conche. La fine di Teodorico è avvolta dal mistero e numerose sono le leggende riguardo la sua scomparsa. Anche a causa del fatto che la sua tomba a Ravenna è vuota. La più celebre è quella della “Caccia Infernale”. A Verona, in una calda giornata estiva, Teodorico si rinfresca con un bagno nell’Adige. A un tratto gli compare davanti un meraviglioso cervo. Il sovrano è un appassionato cacciatore, per inseguire la preda sale in groppa a un misterioso destriero apparso anch’esso all’improvviso. Il nero cavallo è in realtà un essere demonico che invece di seguire i comandi di Teodorico galoppa a folle velocità e in men che non si dica attraversa tutta la penisola italiana fino alle Eolie. Lì si getta, con ancora in groppa il vecchio re nel cratere di Vulcano, ingresso dell’inferno”.

(http://www.veronissima.com/sito_italiano/html/storia-di-verona-teodorico.html)

“Tra l’uno e l’altro riquadro, sotto due nicchie, sono scolpiti in alto un falco che ha appena afferrato una lepre e, appena distinguibile, un uomo, o un essere comunque antropomorfo, che suona da seduto una specie di piccola arpa o una cetra di forma triangolare. Ritengo possibile che essi costituiscano un suggerimento di lettura, una sorta di didascalia: la caccia e la lusinga, cui Teodorico cede diventando a sua volta preda. Più volte è stato sostenuto che queste sculture non si trovassero nella loro posizione originaria e che non fossero opera di Niccolò. Si allineava a questa visione, fra gli altri, anche Arslan, il quale affermava che il protiro romanico fosse stato in gran parte rimaneggiato nella seconda metà del XII secolo, non corrispondendo l’aspetto attuale del portale e della sua cornice con le modalità del romanico veronese, ma piuttosto con le prime espressioni locali del gotico. Le scene della caccia sarebbero, a suo parere, rozze, non originali e aggiunte come mero riempitivo, e i rilievi decorativi sottostanti, certamente di mano di Niccolò, sarebbero manifestamente destinati a riempire due spazi vuoti, creatisi con la risistemazione della facciata.

La critica più recente, sostiene invece che i riquadri in questione sono strettamente collegati a quelli circostanti, non solo sotto l’aspetto tematico, ma anche fisicamente, e che sono da ascrivere a Niccolò. Le controversie sull’attribuzione e sulla pertinenza o meno al contesto delle lastre inferiori sono dovute soprattutto al fatto che esse risultano molto rovinate, poiché per diversi secoli i monelli veronesi nei loro giochi le presero a sassate, per far stridere le pietre provocando scintille che rammentassero quelle infernali cui fu condannato il tiranno. Nonostante lo stato particolarmente compromesso, si riconoscono infatti in questo bassorilievo i tratti caratteristici dello stile di Niccolò, nel rappresentare la barba ricciuta di Teodorico, consumata ma ancora parzialmente visibile, la criniera e la coda del cavallo.

Anche nell’iscrizione: O REGEM STULTUM PETIT INFERNALE TRIBUTUM/ MOXQUE PARATUR EQUUS QUEM MISIT DEMON INIQUUS/ EXIT AQUAM NUDUS PETIT INFERA NON REDITURUS/ NISUS EQUUS CERVUS CANIS HUIC DATUR HOS DAT AVERNUS si ravvisa il suo stile tipico, per esempio nell’uso della grafia W per il nesso latino VV. “(Oh re sciocco, chiede un tributo infernale/ già appare il cavallo che l’ostile demonio mandò/ nudo esce dall’acqua, si reca negli Inferi dai quali non farà ritorno. Falco, cavallo, cervo, cani gli sono stati dati/ tutto ciò dà l’inferno). La traduzione in italiano è della scrivente Anna Dalle Mule. (LA CAVALCATA INFERNALE DI TEODORICO UNO STUDIO ICONOGRAFICO Inaugural-Dissertation zur Erlangung des Doktorgrades der Philosophie an der Ludwig-Maximilians-Universität München vorgelegt von Anna Dalle Mule aus Berlin 2016”.

(https://edoc.ub.uni-muenchen.de/20344/1/Dalle_Mule_Anna.pdf)

I due riquadri con la Caccia infernale mostrano una chiara influenza di modelli tardoantichi, facilmente reperibili nei dintorni, poiché il monastero di San Zeno fu edificato su una vasta area cimiteriale, in cui si trovavano numerose lapidi iscritte e cippi funerari, molti dei quali sono reimpiegati in vari punti della basilica e della vicina chiesa di San Procolo.

Il Teodorico a cavallo scolpito da Niccolò ricorda da vicino in particolare il tema rappresentativo del Cavaliere trace, tanto diffuso nei rilievi neoattici. Questo personaggio era un’antica divinità della Tracia deputata alla difesa dei campi e del bestiame dalle fiere; più tardi fu ritenuto protettore della casa e il suo culto assunse grande rilevanza in età ellenistica. Il tema del Cavaliere trace è molto diffuso nell’arte funeraria dell’antica Tracia fino al III secolo dopo Cristo, e in altre aree, soprattutto le zone del Reno e del Danubio, sulle tombe dei legionari. Uno dei rilievi che più si accostano a quest’opera di Niccolò è una lastra conservata al Museo Maffeiano di Verona, in cui non solo il mantello svolazzante è molto simile a quello di Teodorico, ma notiamo anche, esattamente come nel rilievo a San Zeno, un piccolo cane fra le zampe del cavallo. Non sembra possibile che Niccolò potesse aver ammirato questo modello in particolare, ma a Verona si trovavano allora come oggi numerose opere di scuola neoattica di età augustea, e si riscontrano caratteri tardoellenistici nei monumenti architettonici come nei rilievi funerari; pare quindi assai probabile che il nostro scultore ne sia stato colpito e ne abbia ripreso i motivi”. (http://www.arte-argomenti.org/saggi/nicolo.html)

“Dall’esame degli aspetti stilistici, iconografici ed epigrafici che caratterizzano i rilievi zenoniani, nonché dall’analisi del loro contesto storico-artistico emerge con certezza come essi costituiscano l’unica attestazione figurativa indubbia ad oggi conosciuta della Cavalcata infernale di Teodorico. Si è visto come i rilievi siano contemporanei al resto delle sculture della facciata e come tutti gli elementi figurativi che li compongono siano strettamente funzionali all’illustrazione della storia qui effigiata. Si è visto come, collocando il “nisus” al di fuori della scena principale, Nicolò sia riuscito a illustrare la leggenda della cavalcata in ogni suo dettaglio, rimanendo fedele all’iconografia corrente della caccia al cervo che non prevede la presenza del falco. Si è visto come queste sculture siano opera di una grande personalità artistica, la quale oltre a possedere una straordinaria abilità di rappresentazione, nella quale combina elementi iconografici e testuali con grande originalità e ricchezza di particolari, dimostra anche una grande capacità di rielaborare forme d’arte preesistenti in composizioni che risultano così essere senza precedenti. In questo caso specifico Nicolò si è volutamente ispirato alle consuete rappresentazioni di caccia per adattarne una al racconto leggendario. Si è visto, ancora, come per richiamare la personalità storica del re, Nicolò abbia consapevolmente scelto uno stile classicheggiante. Si è visto come i rilievi siano strettamente legati al testo epigrafico che li accompagna, il quale costituisce un tutt’uno con l’immagine e ci permette di chiarirne il significato. Si è visto, inoltre, come in questo caso l’omissione del nome rientri perfettamente nel registro epigrafico adottato da Nicolò in accompagnamento alle immagini e che si distingue per l’utilizzo di testi allusivi. Si è visto, infine, come la scelta di raffigurare questa leggenda denigratoria in un luogo così prominente come la facciata della basilica zenoniana sia funzionale alla celebrazione dell’autonomia comunale veronese e all’esaltazione del santo patrono, senza peraltro avversare l’autorità imperiale che tradizionalmente trovava nell’abbazia veronese un baluardo. Grazie alla sua capacità di recepire la realtà circostante e di ascoltare i racconti e le leggende che popolavano le piazze ‒ è infatti altamente probabile che la leggenda della Cavalcata infernale fosse già diffusa oralmente quando venne raffigurata sulla facciata della basilica zenoniana ‒ Nicolò ha saputo dare forma creativa alle sue fonti artistiche per adempiere alle richieste socio-politiche e gli ideali religiosi dei suoi committenti. Ne risulta così un’opera che costituisce per molti versi un vero e proprio unicum della storia dell’arte”.

(https://edoc.ub.uni-muenchen.de/20344/1/Dalle_Mule_Anna.pdf)

La fine di Teodorico è avvolta dal mistero e numerose sono le leggende riguardo la sua scomparsa. Anche a causa del fatto che la sua tomba a Ravenna è vuota. La più celebre è quella della “Caccia Infernale“. A Verona, in una calda giornata estiva, Teodorico si rinfresca con un bagno nell’Adige. A un tratto gli compare davanti un meraviglioso cervo. Il sovrano è un appassionato cacciatore, per inseguire la preda sale in groppa a un misterioso destriero apparso anch’esso all’improvviso. Il nero cavallo è in realtà un essere demonico che invece di seguire i comandi di Teodorico galoppa a folle velocità e in men che non si dica attraversa tutta la penisola italiana fino alle Eolie. Lì si getta, con ancora in groppa il vecchio re nel cratere di Vulcano, ingresso dell’inferno”.

(http://www.veronissima.com/sito_italiano/html/storia-di-verona-teodorico.html)

“Oh re sciocco, chiede un tributo infernale / già appare il cavallo che l’ostile demonio mandò / nudo esce dall’acqua, si reca negli Inferi dai quali non farà ritorno. Falco, cavallo, cervo, cani gli sono stati dati / tutto ciò dà l’inferno”.

“In Italia, soprattutto nell’area alpina, la Caccia selvaggia viene associata a lontane luci, scalpitio di zoccoli, abbaiare di cani, urla demoniache, e un forte sibilare del vento. Il protagonista della caccia in questa zona si chiama Beatrik, e viene associato alla figura di Teodorico il Grande. La leggenda col tempo è stata inquadrata in una cornice cristiana che ne ha modificato i suoi connotati soprattutto nell’esito finale, utilizzandola a fini di ammonimento; in questa variante, l’intervento di un religioso riesce ad allontanare il corteo infernale. La caccia selvaggia o schiera furiosa è un tema mitologico e folkloristico originario dell’Europa settentrionale, centrale e occidentale. La struttura narrativa di tutte le versioni del mito si fonda su questa premessa: un corteo notturno di esseri sovrannaturali attraversa il cielo (o il terreno), mentre è intento in una furiosa battuta di caccia, con tanto di cavallisegugi e battitori al seguito. Fra i protagonisti della battuta di caccia nelle varie culture si possono citare Odino e sua figlia Hell, poi resa personaggio maschile nel secondo medioevo ( il Sire Hellequin, Scandinavia), re Artù (Britannia), Carlo Magno (Francia), Nuada (Irlanda), Arawn (Galles), re Waldemar (Danimarca), l’exercito antiguo (Spagna), e Wotan con il suo wilde Jagd (“caccia selvaggia”) in Germania. Si possono raggruppare le varianti secondo quattro classi, a seconda che il corteo soprannaturale sia composto da: soli animali (la maggioranza dei casi); anime dannate; esseri mostruosi o dalle origini comunque ultraterrene; un corteo guidato da un capogruppo, in genere legato alle forze ctonie. Essere testimoni della Caccia selvaggia viene considerato presagio di catastrofi e sciagure; i mortali che si trovano sul cammino del corteo sono in genere destinati a essere uccisi (rapiti e portati nel Regno dei Morti)”.”

(https://it.wikipedia.org/wiki/Caccia_selvaggia)

Meditazione: il linguaggio delle immagini contraddice l’ideologia delle parole

La rappresentazione della Cavalcata infernale di Teodorico mi sembra che contenga una contraddizione molto intrigante: le parole del commento dell’artista dicono una cosa, mentre il linguaggio dell’immagine dice l’opposto. E’ come se si dicesse una cosa mentre il linguaggio del corpo dice il contrario. Ricordo la frase scritta in versi leonini sopra le figure: “Oh re sciocco, chiede un tributo infernale / già appare il cavallo che l’ostile demonio mandò / nudo esce dall’acqua, si reca negli Inferi dai quali non farà ritorno. Falco, cavallo, cervo, cani gli sono stati dati / tutto ciò dà l’inferno”. La scritta è chiaramente “denigratoria” verso il “re stolto” che “esce nudo dall’acqua” e “più non vi farà ritorno”. La figura del re viene gravemente messa in cattiva luce: l’autorità politica più elevata viene denigrata in un monumento pubblico di vitale importanza, simbolo dell’orgoglio della città e della ideologia comunale. Lo conferma Anna Dalle Mule: “La scelta di raffigurare questa leggenda denigratoria in un luogo così prominente come la facciata della basilica zenoniana è funzionale alla celebrazione dell’autonomia comunale veronese e all’esaltazione del santo patrono, senza peraltro avversare l’autorità imperiale che tradizionalmente trovava nell’abbazia veronese un baluardo. (…) Nicolò ha saputo dare forma creativa alle sue fonti artistiche per adempiere alle richieste socio-politiche e gli ideali religiosi dei suoi committenti”. Diciamo che sono due matrix che si stanno scontrando, cioè la matrix comunale e la matrix imperiale e in quello che è l’emblema visivo e simbolico della città, il monumento di San Zeno, sta prevalendo il sistema comunale che sta imponendo la sua ideologia a detrimento dell’autorità imperiale, anche se per non incorrere in sanzioni punitive, il nome del re non viene fatto.

C’è un’altra componente importante: la demonizzazione. La denigrazione viene aggravata da una pesante azione del demonio che diventa il punitore dei vizi del re e autore dell’inganno che causa la sua rovina. La figura del re appare nella leggenda estremamente viziosa, preda della sua avidità e della sua brama di potere, viene preso in una specie di delirio di onnipotenza. La cerva con le corna d’oro rappresenta la ricchezza e la sua brama che lo fa uscire nudo dall’acqua rappresenta la frenesia del potere e del possesso. Egli pensa, desidera e agisce totalmente preso all’interno di una matrix che egli stesso rappresenta ma che nello stesso tempo lo manipola e lo possiede completamente. Egli è contemporaneamente causa e vittima della sua stessa voracità. Nella mentalità medievale tutto questo sequestro emotivo economico e di potere si esprime attraverso il simbolo del diavolo e la metafora dell’inferno. Diavolo e inferno rappresentano la matrix sia come causa che come effetto di ciò che produce il totale sequestro mentale delle persone da parte del potere. La matrix rappresentata dal re è qualcosa che è nello stesso tempo posseduta da una matrix più potente, è uno strumento passivo al suo servizio e nello stesso tempo vittima e oggetto della distruzione da essa operata.

Infine, c’è una terza componente: la minaccia psichica attraverso il terrore della fine prospettata nel re. La fine del re è presentata come una minaccia non solo per l’autorità che degenera dal suo ruolo di esempio per la città, ma anche per tutti. La paura è l’emozione che la scritta vuole incutere in tutti, perché intende presentare il re come modello di caduta e di degenerazione. Il re è denigrato, ma la paura rimane in tutti: ella scritta la matrix riafferma n il suo dominio sulle menti. Ci dicono che la gente abbia reagito in modo duplice a questa minaccia, che è l’applicazione del regime delle 3T e del senso di colpa: da una parte le donne sfregavano dei sassi sulla pietra della formella scavando delle fosse circolari per creare scintille e odore di zolfo, dato che la pietra contiene zolfo. Può essere che si volesse in questo modo accentuare la minaccia e la paura che il soggetto scultoreo doveva incutere nella gente. Ma questo sfregamento di sassi sulla scultura che ha rovinato e modificato l’opera in modo irreversibile può avere anche il senso della irrisione e della ribellione verso il potere del re, verso la sua voracità e la sua frenesia, come pure può essere una sfida verso il potere diabolico a cui la gente di Verona non si sentiva sottomessa. Insomma, un aperto gesto di sfida e di disobbedienza.

Se queste sono le riflessioni che mi sento di fare sulla scritta “infernale”, ben altri sono i pensieri che la scultura mi sollecita. Infatti, il linguaggio delle immagini dice tutt’altro: parla di una scena di caccia. Solo la figura sull’estrema destra fa pensare a qualche personaggio diabolico, collocata al margine. Non c’è nulla che faccia pensare al demonio, oppure al vulcano entro il quale Teodorico sarebbe stato inghiottito portato dal diabolico cavallo nero. La Cavalcata infernale sembra piuttosto una scena di caccia al cervo e il cavaliere assomiglia all’archetipo del cavaliere trace. Cioè un simbolo della protezione della caccia e dei raccolti, come è segnalato nei testi che ho riportato. E’ solo la scritta che ci dice che gli animali raffigurati (falco, cani, cavallo e cervo) siano dono del diavolo e dell’inferno, mentre, invece, sembrano immagini naturali serene, senza senso infernale né demoniaco. C’è, insomma, una incongruenza tra il messaggio verbale dichiarato e quello delle immagini: è come se una ideologia volesse affermare qualcosa, mentre il corpo e la figura affermano l’opposto.

Questa incongruenza è molto fuorviante e molto straniante: il messaggio scritto va in controtendenza rispetto a quello visivo. Come si spiega? E’ un esempio perfetto di “ombra” o di inconscio: l’ideologia che l’autore ha in testa afferma una cosa, mentre il linguaggio della sua arte afferma l’opposto. Il messaggio dionisiaco dei corpi (umani e animali) dice una cosa che è quella che l’inconscio, l’ombra e la Mente Grande vuole, mentre l’apollineo della scritta dice una cosa opposta, che è quella che vuole affermare il potere. Quest’ultima è imposta all’artista dal potere, ma la sua arte gli proviene dal profondo del suo corpo e del suo inconscio, gli proviene dalla sua “ombra” psichica. Abbiamo un caso lampante di sdoppiamento, di doppio, in cui, però, il significato non detto, non dichiarato è quello autentico perché espressione dell’essere e della vita che erompe alla fine inevitabilmente anche contro le intenzioni della committenza e della parte razionale dell’artista.

Le narrazioni originarie di San Zeno a Verona

La Basilica di San Zeno è un percorso iniziatico verso il progetto originario

Una via di meditazione molto interessante è quella attraverso l’arte. L’opera d’arte è un veicolo di meditazione straordinariamente efficace e potente. Infatti, ha molte caratteristiche del progetto originario: la bellezza, l’intuizione, il pensiero, l’immaginazione, tutte funzioni della Mente Grande che vanno al di là della ristrettezza di orizzonti che caratterizza la mente piccola che è tenuta a freno dalla matrix. Alla fine di ottobre 2021 mi telefonano degli amici milanesi di Barbara Bastianello chiedendomi di accompagnarli in una visita guidata ai monumenti di Padova. Accetto e la esperienza è talmente bella che mi propongo di accompagnarli anche alla visita di San Zeno a Verona che hanno in programma di fare il giorno dopo, il 31 ottobre 2021. Accettano la mia proposta. Inizia così una meditazione che non è ancora finita, basata sul grande cluster di bellezza che si concentra a San Zeno.

Prima narrazione: la rinascita attraverso il tempo

A San Zeno si impara a meditare. Ci sono quattro livelli di meditazione. Il primo livello lo troviamo nella facciata. E’ costituito dal rosone chiamato la “Ruota delle Fortuna”. In realtà, sarebbe più corretto chiamarla la “narrazione della rinascita attraverso il tempo”. Le dodici coppie di colonnine che fanno i raggi della ruota del sole, cioè di Cristo, rappresentano le ore della giornata e i dodici mesi dell’anno. In questa griglia di tempo scandito dal ritmo del cosmo (stagioni e ore) si inserisce il tema della rinascita a vita nuova dopo che inevitabilmente si cade e si degenera nel proprio progetto privato. Si inserisce la dietetica esistenziale personale, cioè la storia giornaliera di ognuno fatta di lotta tra l’uomo vecchio e l’uomo che deve rinascere dall’alto e dallo spirito, cioè deve cambiare mente, modo di pensare.

La Ruota della Fortuna

A ore due, a ore quattro e a ore sei ci sono le tre posizioni dell’uomo vecchio che decade dal suo progetto originario. La prima caduta è verticale, è nudo e solo una stola è poggiata sul braccio. Il secondo uomo decaduto è totalmente capovolto, girato con la testa verso il basso e le gambe rivolte in alto. Infine il terzo ha toccato il fondo e si trova sul punto più basso della sua caduta. La prima narrazione della facciata di San Zeno ci dice che ora noi possiamo rinascere, dopo che abbiamo toccato il fondo dell’allontanamento dall’origine.

La figura a ore 12 (in alto)
La figura a ore 2
La figura a ore 4
La figura a ore 6 (in basso)
La figura a ore 8
La figura a ore 10

Possiamo rinascere proprio guardando a quell’origine. Nelle ultime tre sculture la persona è rimessa in piedi e rivestita dell’uomo nuovo. Rivestirsi della propria umanità rinata e rinascere a vita nuova: ecco quello che si impara meditando sulle narrazioni visive di San Zeno.

La prima narrazione è quella cosmica: il ritmo del tempo è deciso non da un orologio che scorre, ma da una persona che cambia, che si trasforma ritornando a quella che era in origine, ritornando all’inizio del mondo, cioè a quella esperienza paradisiaca che è l’esperienza della vita uterina presente nel nostro inconscio e nel nostro corpo come se fosse per ognuno l’eden vissuto e percepito quotidianamente. Rinascere a vita nuova non è altro che ritornare a quella origine in cui tutto ha avuto inizio. Nell’inizio c’è tutto, il senso di tutto e il metodo per ritornarvi dopo che inevitabilmente si viene risucchiati e schiacciati nella matrix come le tre figure delle prime sei ore: il ritorno all’origine è un viaggio verso la propria vera immagine al centro del cosmo seduta su un trono, la nostra vera vita come è quella del bambino dentro l’utero della madre che non è altro che la ruah cioè l’abbraccio dell’utero di madre che è Dio stesso.

“La realizzazione del rosone avvenne in contemporanea con l’edificazione della facciata e del corpo avanzato della basilica. Il cantiere del rosone, commissionato a Brioloto de Balneo quasi certamente dall’abate Ugo (titolare dell’abbazia di San Zeno dal 1187 al 1199), iniziò tramite la demolizione a forma di arco della parte superiore della facciata, la cui realizzazione stava in un primo momento procedendo speditamente, in quanto non era previsto l’inserimento di una finestra di tali dimensioni. Successivamente a questa fase di smontaggio vennero collocati gli elementi scolpiti del rosone, proseguendo parallelamente con la messa in opera della muratura ai lati dello stesso.

Non è chiaro cosa avvenne esattamente nel momento di completamento e chiusura del rosone, tuttavia appare molto probabile che la muratura fosse stata completata fino al limite oltre al quale inizia poi il marcapiano del timpano; vi dovette quindi essere una pausa del cantiere, terminata la quale venne realizzato nei primi decenni del Duecento, da una maestranza diversa da quella di Brioloto, il marcapiano appena citato: la nuova maestranza addirittura segò o eliminò, nei punti in cui era necessario, alcuni blocchi della corona del rosone fatta realizza da Brioloto, per potervi inserire i capitelli e le mensoline che sorreggono l’archeggiatura del marcapiano.

La realizzazione del rosone, tra i primi realizzati in Italia di tali notevoli dimensioni, colpì la comunità veronese dell’epoca, tanto che l’opera venne celebrata da un’iscrizione (oggi situata sul fianco meridionale della chiesa) che ne ricorda il nome, “Ruota della Fortuna”, e l’autore, Brioloto de Balneo.

Scritta sulla parte sia esterna che interna del mozzo della Ruota della Fortuna: “Io sono la Fortuna che unicamente regolo la sorte dei mortali. Io elevo, io depongo, dono a tutti sia i beni che i mali. Vesto coloro che sono nudi e denudo coloro che sono ricoperti di vesti: se qualcuno confida in me, se ne andrà deriso”.

Il rosone è caratterizzato dalla notevole dimensione di 5,6 m di diametro dell’apertura e di 8,15 m di ampiezza totale ed è del tipo a raggi semplici, i quali sono composti da dodici coppie di colonne ottagonali che reggono (o poggiano su) un anello monolitico centrale in marmo Nembro (varietà molto chiara di rosso ammonitico), internamente forato da una teoria di archetti, mentre esternamente poggiano su (o reggono) una serie di grandi archi in rosso ammonitico veronese. La ghiera più esterna è composta da tre gradini in marmo grigio di Canale a loro volta racchiusi da una cornice esterna in pietra di Avesa. Una particolarità è che i plinti, la basi, le colonne e i capitelli che costituiscono i raggi furono scolpiti in un unico blocco di rosso ammonitico veronese, inoltre le basi e i capitelli sono fusi tra di loro. Di ordine corinzio, i capitelli ad una visione ravvicinata appaiono molto diversi tra di loro: alcuni infatti, sono caratterizzati da foglie variamente disposte, in alcuni casi con riccioli o volute, mentre altri si contraddistinguono per la presenza ai quattro angoli di busti o volti umani o perfino di volti di cani.

Sulle facciate interna ed esterna del mozzo sono incisi in maniera molto accurata ed elegante alcuni versi in rima, in cui la Fortuna dichiara di avere il potere sì di innalzare ma anche di umiliare, di vestire ma pure di spogliare, e invitando pertanto a diffidare della sua volubilità: «En ego F«o»rtuna moderor mortalibus una./ Elevo, depono, bona cunctis vel mala dono./ Induo nudatos, denudo veste paratos;/ in m«e» confidit siquis, derisus abibit».

Questo messaggio è perfettamente raffigurato nelle sei figure scolpite nel giro più esterno della Ruota: queste sono infatti rappresentate in diversi stati di fortuna, in un’azione che si svolge in senso orario. In alto è infatti rappresentato lo stato di massima prosperità, un uomo raffigurato come un sovrano in trono, privo

Scritta sulla parte sia esterna che interna del mozzo della Ruota della Fortuna: “Io sono la Fortuna che unicamente regolo la sorte dei mortali. Io elevo, io depongo, dono a tutti sia i beni che i mali. Vesto coloro che sono nudi e denudo coloro che sono ricoperti di vesti: se qualcuno confida in me, se ne andrà deriso”.

però delle insegne del potere, la cui mano destra indica, verso l’alto, la Fortuna, un gesto che allo stesso tempo invita a non fermare il proprio pensiero alla mutevolezza di questo mondo, ma a portarlo in alto verso Dio, che sta sopra alla Fortuna stessa. Subito a destra l’uomo è invece rappresentato mentre precipita e privo di vestiti, con solo un pezzo di stoffa pendente dal braccio; poco sotto è completamente nudo e tenta di aggrapparsi alla Ruota (come anche nello stato precedente); in fondo è ormai accasciato e schiacciato dal peso della sfortuna; poco sopra la figura, vestita di una tunica, è accovacciata e tenta di rialzarsi; infine, più in alto ancora, la figura vestita di tunica e mantello è ormai quasi in piedi, con lo sguardo rivolto verso l’interno della Ruota”. (https://it.wikipedia.org/wiki/Rosone_della_basilica_di_San_Zeno)

“L’arte è uno dei pochi e brevi momenti di gloria delle nostre vite”

La riflessione di S. sull’arte e sulla vita dei giovani

Se c’è qualcosa che non è generico, che è originale e che sfugge alle leggi infallibili della società individuate da Comte, è la riflessione spontanea di una studentessa in una verifica di filosofia. Lì c’è poco da fare: non parlano né la statica né la dinamica sociale, né la legge della complessità crescente né quella della generalità decrescente: parla la vita, parla il progetto originario della vita così come lo percepisce una adolescente che si trova ancora vicina a quell’eden primordiale che è la vita intrauterina. Per questo i giovani sono originari: perché vi sono cronologicamente vicini. Correggo il compito e sento una voce interiore che mi chiama: in queste frasi c’è il progetto originario che sta parlando; fermati e rifletti. Così ho deciso di estrapolare la riflessione di S. e farne oggetto di meditazione, esattamente come facevo con le lettere della quarantena e con le valutazioni qualitative. Eccone il testo:

“Ho trovato molto interessante la visione dell’arte di Schopenhauer, il fatto di vederla come una frazione di piacere circondata da delusione e noia: l’ho trovato astuto (arguto) e molto vicino al mio pensiero personale. Schopenhauer dice che l’uomo oscilla continuamente come un pendolo tra delusione e noia, e tra le vie di fuga era stata inserita l’arte. Che scelta interessante, io personalmente la trovo brillante, e devo dire che sono rimasta piuttosto delusa, invece, dalla visione hegeliana dell’arte. Per quanto conosciamo la mentalità chiusa di Hegel trovo quasi irrispettoso definire l’arte “morta”. Trovo che sia un commento fatto da una persona che di arte proprio non se ne intende. Come dice Schopenhauer l’arte è uno dei pochi e brevi momenti di gloria nelle nostre vite.

Quando ho sentito ciò, mi sono quasi emozionata sapendo che qualcuno di così grande (per quanto controverso e incoerente) avesse un modo di pensare tanto vicino al mio. Per quanto mi infastidisca devo dare ragione parzialmente anche ad Hegel, nel discorso in cui critica l’arte antica e l’arte romantica, soprattutto per quanto concerne la seconda. Dopo tutti i progressi artistici fatti, come si può retrocedere in tale modo? Io personalmente osservo, studio e ammiro. Ma faccio fatica ad apprezzare l’arte romantica. Sto ancora riflettendo da che lato schierarmi, per quanto non necessario, perché come dice Schopenhauer, ognuno ha la sua verità”. (S., 15 ottobre 2021)

La riflessione di S. segue il pensiero pessimistico di Schopenhauer che era oggetto della verifica. S., che vive nel XXI secolo, si trova d’accordo su quello che diceva Schopenhauer nel 1818: duecento anni non sono bastati per cambiare orientamento mentale. S. dice di essersi commossa nel sapere che qualcuno di così grande “avesse un modo di pensare tanto vicino” al suo. Quanto a visione positiva della vita non c’è stato progresso in questi duecento anni! Io sono rimasto colpito dal fatto che Schopenhauer e Kierkegaard erano quasi sconosciuti nella loro epoca, mentre oggi sarebbero (e in parte lo sono) dei leader dei giovani con il loro pessimismo.

Mi sono chiesto il perché di questa mancata evoluzione della mente umana verso il meglio. Infatti, se darwinianamente parlando, il miglioramento è intrinseco alla Vita come fenomeno naturale, perché questo si blocca per duecento anni? Se la vita non progredisce, vuol dire che c’è qualcosa di innaturale, di artificiale, che la blocca, perché il germe evolutivo della vita la porterebbe sicuramente a migliorarsi. Appunto, se dei giovani sono così pessimisti come lo era Schopenhauer duecento anni fa, è perché la vita non è più ascoltata e non è più lasciata svilupparsi naturalmente, bensì c’è un blocco artificiale, sociale e non naturale, che impedisce nei giovani questa evoluzione spontanea verso il progresso e il miglioramento.

E’ chiaro che il pessimismo di S., che dichiara “delusione e noia” la frustrante normalità delle “nostre vite”, mentre l’arte, cioè la bellezza, uno dei “pochi e brevi momenti di gloria” che ci sono concessi, è dovuto ad un blocco innaturale delle energie vitali, è dovuto ad un fraintendimento artificiale del linguaggio del corpo, è dovuto ad un influsso sociale che viene dall’esterno (è dovuto ad una afferenza e non ad una efferenza, come direbbe Carluccio Bonesso).

Se, invece, si esaltasse il LICEL (LInguaggio del Corpo, dell’Eros e della Libido) la tendenza verso l’elevazione e il miglioramento sarebbe spontanea e libera, perché i flussi energetici del corpo sarebbero liberi di scorrere in esso e di vitalizzare anche la mente, oltre che il corpo stesso. Ci sarebbe, insomma, molta più salute e felicità, soprattutto, nei giovani perché in essi la vita fluisce in modo molto originario, come se appartenessero all’eden primordiale. La bellezza (arte) di cui parla S. nella verifica di filosofia non è altro che un nome e una forma simbolica per dire “origine” che fluisce in noi attraverso l’energia vitale del linguaggio del corpo, dell’eros e del piacere. Il blocco esercitato dalla società si identifica nel “pendolo” di “delusione e noia” in cui la vita è impigliata; mentre il progetto originario si identifica nei momenti “brevi e pochi di piacere e di gloria”: questi ultimi sono attribuiti da S. all’arte. “Arte” per S. è lasciare fluire nel suo corpo e nella sua mente la bellezza del progetto originario.

Il circuito neuronale ed emotivo della bellezza è il primo dei sei flussi energetici del corpo. Questo flusso è il “ponte” tra “apollineo” e “dionisiaco”, tra universo “mentale” e universo “corporeo”. Quando questi flussi sono lasciati liberi di fluire, cioè quando avviene l’esercizio esperienziale del LICEL, lo stato di benessere è elevato perché i livelli di endorfine e di endoppiacei sono adeguati. Se, invece, il pendolo tra delusione e noia prevale, allora significa che un blocco non naturale è avvenuto, blocco che ha abbassato la normale produzione di dopamina e di serotonina. Normalmente non si aprono gli occhi si questa situazione perché i giovani vivono avvolti in una cappa, in una bolla ideologica di isolamento dal proprio corpo attraverso cui la società li manipola. Ma se si risveglia la coscienza, allora ci si può veramente sottrarre a questo circuito nefasto. Seguendo il sentiero tracciato da Sara nelle mie meditazioni presterò più attenzione e studierò i flussi energetici del corpo come strumento per fare in modo che “i momenti di gloria e di piacere” non siano “brevi e pochi”, frazioni del nefasto “pendolo tra delusione e noia”, ma siano il veicolo e il viaggio verso la salute, la felicità e la libertà.

Cara S., questo è il testo che ho scritto perché sono rimasto molto colpito dalle tue emozioni, così vere e profonde. Mi piacerebbe capire una cosa: tu, quando parli di arte come “momento di gloria”, cosa intendi? A quale arte ti riferisci? Hai degli esempi? E cosa provi in quei “momenti di gloria” e perché li chiami così? Vorrei approfondire questo aspetto, perché è la prima volta che qualcuno parla così dell’arte. Infine, è giusta la mia interpretazione che traduce l’arte di cui tu parli in bellezza e che la identifica col progetto originario?

Infine, potresti dire qualcosa di più sul tuo pensiero, che si avvicina a quello di Schopenhauer? Puoi dettagliare meglio il “pendolo” tra “delusione e noia”? Schopenhauer parla di dolore, perché tu parli di delusione? Ti ringrazio se vorrai rispondermi e se vorrai aiutarmi ad essere meno astratto possibile, a confrontarmi con persone concrete e con le loro esperienze.

Codice Segreto

A Palinuro timoniere del desiderio e del bisogno (Ode)

Sono salito sopra a questa roccia a picco sul mare

Sento la brezza sul viso ed il profumo degli scogli

Immagino di essere al timone di una nave

Che porta trecento uomini verso la loro patria promessa.

Scappano da un potente nemico che ha distrutto la loro città

E vogliono arrivare ad una nuova terra e far nascere la loro patria

Che sarà più potente dei loro nemici e li conquisterà

Roma si chiamerà: trecento uomini bastano per piantare questo seme.

Ma perché questo accadesse un patto osceno dovette essere fatto tra dei

Afrodite e Poseidone: l’una voleva la gloria di Roma

L’altro voleva un sacrificio, un’innocente vittima immolata al mare

Due dei alleati per il potere, il dominio dell’arbitrio e dell’inganno.

E’ meglio che uno solo muoia per il bene di tutti: così pensano

Tutte le matrix di tutti i cieli. La vita di un uomo non vale il potere.

Così è deciso e l’inganno è ordito: il dio del Sonno compirà la trama

Chiederà al fedele nocchiero Palinuro o la vita o il timone.

Palinuro ama il suo mestiere e per mille burrasche ha

Portato in salvo la sua nave. E sa che se il timoniere

Dorme, anche la nave deve dormire sicura nel porto.

Invece, Enea e la dea volevano la fretta, la guerra, la vittoria.

Così pretesero che non ci fosse riposo per il timoniere

E nemmeno per i rematori: via di corsa senza mai sostare.

E’ la frenesia del potere che non ascolta i bisogni naturali

Come il sonno, ma solo la voce del privato interesse.

Le false divinità del potere sopprimono queste

Naturali richieste del corpo ed inviano un Sosia impostore

Un dio nemico della vita e del corpo e per questo non

Un dio ma demone che inganna Palinuro nel sonno traditore.

Così i due progetti si sono divisi, ma la lotta di Palinuro

Per rimanere timoniere fedele ai desideri e curatore del corpo

Ha la nostra ammirazione e lo speriamo vincitore

Dei flutti, mentre non ci piace il progetto della nave dal nome

Sinistro “Matrix”. Che deve andare contro il giusto bisogno

Per imporre il suo dominio e il suo volere. Non è questo

Il vero potere e non è questa la vera religione che usano inganno

E sofismi. Palinuro è l’uomo autentico e il vero timoniere

Perché la sua rotta è segnata dai veri desideri e dai

Veri bisogni. Essi sono come il promontorio che a Palinuro

Ha dato la tomba: una roccia salda è il corpo e la

Sua naturale vita divina: questa venerare è la vera religione.

Avete capito che nella vostra immaginazione dovete scegliere se continuare il viaggio verso il potere insieme ai Trecento Troiani guidati da Enea, oppure se volete stare con Palinuro in balia delle onde. Se Palinuro affascina con la sua teoria dei bisogni libera dalle 3”T” perché le sostituisce con le 3”S”; non abbiate rimpianti: con Palinuro si impara il linguaggio del corpo. Questa non è mai una sconfitta, ma è sempre una vittoria. Le sue non sono lezioni, non ti dice come o cosa devi fare. Le sue sono meditazioni corporee: la mente è il nuovo timoniere e la nave è il corpo. Ma la rotta è tracciata dai bisogni-desideri di questa nave-corpo. La nave nuova di Palinuro, si beninteso, non quella che si chiama “Matrix” dei Trecento Troiani. Se il corpo fissa la rotta, allora proviamo ad ascoltarlo. Ad esempio, sono in spiaggia. La mia meditazione corporea è ammirare i corpi, soprattutto quelli abbandonati al caldo abbraccio del sole e a quello del sonno.

Celebriamo ora un rito perché la meditazione corporea diventi celebrazione al vero divino che è nel corpo. Il rito non è significativo per la complessità del gesto. Esso può essere molto semplice in sé. Quello che conta è la rotta corporea che la nave-corpo sta seguendo nel suo viaggio (meditazione) pilotata dalla mente-Palinuro. Scegli uno di questi bisogni e segui la rotta che questo indica: bisogno – desiderio – disequilibrio – attivazione – saturazione – riequilibrio – soddisfazione (felicità). Non badare alle 3”T”: su ogni bisogno la matrix ha imposto il suo potere e, dunque, sentirai sempre una “voce” contraria. Ma questa voce è esterna ed è dettata da una paura ed un disagio. Invece, se segui la rotta del corpo-nave, non percepirai nulla di questo. Abbi solo coraggio e non farti ipnotizzare dalla Nave dei Trecento (la matrix

) e degli dei invidiosi alleati col potere contro il corpo.

Fai come quei sapienti del vangelo che sono stati i più grandi creatori di riti della storia. Pensate a quel battesimo rovesciato che è stata la cosiddetta “lavanda dei piedi”: il “battesimo” dei piedi per imparare il loro linguaggio. Invece di nasconderli, questi piedi, lavateveli a vicenda. I piedi sono il basamento del corpo, quelli che lo fanno stare in equilibrio e lo fanno camminare. Lava i piedi del tuo partner, non oscurare questo linguaggio e questa rotta del corpo. Immagina e scegli un altro bisogno e non pensare a nessun tabù. Non ascoltare la voce del tabù (le 3”T”), ma ascolta il linguaggio del bisogno, disequilibrio (troppo – troppo poco) e desiderio. Sappi che è lo spirito dionisiaco che sta parlando in quel bisogno ed è la parte più vitale presente in te. Condividi con il tuo partner l’azione rituale e simbolica scelta per saturare quel bisogno. Mentre lo fai, pensa al percorso di Palinuro rispetto al sonno ed imitalo a proposito del bisogno che hai scelto. Meglio ancora se scegli un Grande Mezzo, il mare ad esempio o la cima di un promontorio proteso sul mare ed accompagna il gesto con un rito accettato e visibile. La parte sommersa che provocherebbe scandalo ed offesa ai tabù sociali la tieni per te ed il tuo partner con cui, se esiste, condividerai questo percorso di saturazione del bisogno. E mentre compi il gesto, pensa al linguaggio corporeo di quel bisogno e pensa cosa ti sta dicendo il corpo attraverso quel bisogno.

La tua mente si inebrierà, si inonderà di corporeità, farà un tuffo, un bagno nella corporeità e si riempirà di dopamina, quella sana. Non dimenticare che tutti i bisogni corporei passano attraverso le cinque vie sensoriali la cui via sacra è il tatto e saranno soprattutto le cinque ancelle danzatrici a guidare le danze. Non lasciare a medici e sacerdoti questi officianti rituali, ma appropriatene per diventare il signore del tuo corpo. Non trascurare il fato che la saturazione del bisogno è dionisiaca e che sempre procura piacere molto intenso. Questo piacere è concentrato nel piacere sfinteriale delle cosiddette “zone erogene”. Nell’appropriarti del linguaggio corporeo impara ad ascoltare questo linguaggio ogni volta che si manifesta un disequilibrio e prova a realizzare la saturazione in modo rituale e celebrativo.  Per onorare Palinuro scegli uno di questi bisogni come lui si è sacrificato per il sonno ed offrilo alla sua immagine. Ti risveglierà dal sonno della coscienza e ti riempirà di felicità facendoti diventare discepolo del LICEL.