Tre Crocifissi all’origine del Rinascimento. Terza parte: il Crocifisso del Santo di Donatello

Il Crocifisso del Santo

Con il Crocifisso del Santo questo capitolo (vedi nel Blog la seconda parte) si arricchisce di un nuovo approfondimento.

crocifisso santo

Donatello, Crocifisso, 1444-1447, Basilica del Santo, Padova

1. La committenza, la datazione e la collocazione

L’opera è corredata da una documentazione sufficientemente ampia e solida dal punto di vista storico-critico. Sappiamo dai documenti depositati presso l’Archivio della Venerabile Arca di Sant’Antonio che committenti furono i confratelli della pia associazione laicale probabilmente per sostituire il crocifisso gotico con uno di gusto rinascimentale. Anche la datazione e la cronologia dell’opera è certa, pur con qualche sfumatura di dubbio su aspetti marginali. Sappiamo da un documento dell’Arca che nel 1444 venne acquistata la cera per il modello; altri documenti ci attestano che nel 1447 l’opera veniva esposta in Basilica e che, infine, nel 1449 veniva pagata l’ultima rata del compenso dell’artista. I dubbi residui provengono dal fatto che la scultura venne sommamente apprezzata, tanto che in seguito, dal 1446, i frati decisero di affidare una commissione ancora più importante a Donatello, la realizzazione dell’altare maggiore, al quale lavorò fino al 1450 e dunque i pagamenti e gli atti contabili di cui parlano i documenti si mescolano e si confondono un po’ per quanto riguarda le due committenze. Per quanto riguarda la collocazione originaria le prove documentarie non sono così evidenti e quindi la discussione tra gli studiosi è stata molto accesa nel corso degli anni. Secondo Francesco Caglioti, curatore della Mostra, sono Joachim Poeschke (1980) e Geraldine A. Johnson (1997) gli studiosi che meglio hanno identificato e risolto il problema della prima collocazione che è quella del pontile che divide la chiesa dei fedeli da quella dei frati. Il problema si è complicato non solo perché mancano evidenze documentarie ma anche perché sicuramente la collocazione è cambiata nel corso dei secoli. Si possono, infatti, individuare quattro periodi in cui il Crocifisso risiede in luoghi diversi, fino alla collocazione attuale. Inizialmente il Crocifisso non era collocato presso l’altare maggiore ma al culmine di un pontile che delimitava la parte della chiesa riservata ai fedeli e quella del corso riservato ai frati.
a) Il primo periodo va dalla collocazione originaria del 1447 sul pontile “in mezo la iexia” fino al 1651 quando viene collocato sull’altare maggiore ricostruito da Girolamo Campagna e Cesare Franco dal 1579 al 1587, dopo avere distrutto il primitivo altare donatelliano.
b) Il secondo periodo va dal 1651 al 1749 anno in cui scoppia un terribile incendio nel coro della chiesa e tutte le sculture si affumicano e la croce di legno azzurra si brucia. Da quel momento tutto il complesso dell’altare dopo il restauro viene traslato in fondo alla tribuna a una quota più alta e il Crocifisso ne seguì le sorte svettando al centro dell’arco.
c) Il terzo periodo va dal 1749 al 1893-95, quando Arrigo Boito colloca il Crocifisso insieme alle altre sculture donatelliane degli altri Santi e della Vergine con il Bambino nell’ambito della ricostruzione dell’Altare Maggiore e che corrisponde alla disposizione attuale..
d) Il quarto periodo dura dalla ricostruzione del Boito del 1895 ad oggi.
In tutte le collocazioni, ma soprattutto nella prima, è evidente la centralità e la grande visibilità, l’importanza simbolica che viene data all’opera proposta in modo solenne e monumentale alla devozione dei fedeli. Il Crocifisso non fu mai collocato in una cappella laterale proprio per il grande prestigio e la importanze che gli viene attribuita fin dall’inizio.

2. Le caratteristiche della nuova sintesi, della nuova vision

Il Crocifisso del Santo rappresenta la sintesi fra i tre crocifissi che abbiamo analizzato fino ad ora, quello di Santa Croce, quello di Brunelleschi e quello dei Servi e, nello stesso tempo inizia un nuovo sguardo, una nuova visione più integrale e completa del cristianesimo e del sacrificio di Cristo, che tiene conto meglio di tutti i fattori. Le conquiste raggiunte non sono perdute, ma consolidate, e le novità apportate introducono ad una visione più chiara e pacificata. Se gli altri crocifissi ponevano problemi questo propone anche delle soluzione: vale a dire che se gli altri derivavano la loro forza e la loro grandezza dai contrasti e mettevano in luce delle lacerazioni, questo crocifisso pone le premesse per la loro pacificazione. Esso si presenta sintesi di tutto quello che negli altri appariva contrapposto, polarizzato, inconciliato. Innanzitutto, tornando a confrontare le due opere precedenti di Donatello con questa, risalta immediatamente agli occhi un nuovo rapporto tra l’agonia di Gesù e la sua bellezza. Nei due precedenti capolavori, l’agonia prevaleva sulla bellezza portando a “deformare” il corpo, come nel Crocifisso di Santa Croce, oppure a moltiplicare i segni della sofferenza su di esso, come nel Crocifisso dei Servi. In questa opera, invece, pur senza dimenticare i segni del dolore, Donatello conduce la nostra attenzione verso i segni della riconciliata perfezione e bellezza, proponendo in essa, dunque, una sintesi perfetta dell’Umanesimo artistico. Innanzitutto, ritroviamo in quest’opera un rinnovato equilibrio tra umano e divino. Non è che, come abbiamo visto, negli altri due questa compresenza non ci fosse, ma gli elementi dell’umanizzazione prevalevano su quelli della divinità. Qui, invece la sintesi tra le due nature di Cristo è perfettamente ritrovata.
3. Il ritorno imponente della divinità
La divinità di Cristo, che nel Crocifisso dei Servi era stata ridotta al lumicino, al punto quasi di perderla di vista del tutto, ci viene qui riofferta in tutta la sua forza di cambiamento, di resurrezione. Gli elementi che segnalano la divinità si possono suddividere in elementi esterni e in elementi intrinseci all’opera. Gli elementi esterni, cioè che sono posti a compimento dell’opera aggiungendo qualcosa all’esterno alla fisicità corporea del Cristo sono: la aureola e la croce azzurra; quelli intrinseci; cioè quegli elementi che caratterizzano la stessa struttura fisica del corpo di Cristo, sono: le proporzioni, la “pulizia” del corpo, il recupero della classicità.

a) L’aureola e la croce azzurra

volto

Donatello, Crocifisso, particolare, Basilica del Santo, Padova E’ ben visibile l’aureola.

L’aureola e la croce azzurra sono gli elementi esterni di questa “ritrovata” divinità del Cristo. La committenza di questi due importanti fattori è ben documentata, segno questo del grande valore che i confratelli dell’Arca attribuivano a questi due simboli. “… la figura aveva ricevuto i suoi accessori complementari già nei primi due mesi dello stesso anno (1449, aggiunta nostra): Andrea Conti delle Caldiere, fonditore di fiducia di Donatello a Padova, era stato remunerato per il nimbo (“diadema di ramo”) e fra Bartolomeo da Castagnaro – impegnato in altre occasioni simili come soprastante dell’Arca – per averlo fatto dorare; Niccolò Pizzolo, invece, aveva dipinto d’azzurro la croce lignea, dorandola con l’aiuto di una “donna”.” (F. Caglioti, Donatello. Crocifisso, Scheda del Catalogo della Mostra, op. cit., p. 110) L’aureola o nimbo è un attributo molto frequente nell’arte sacra. Essa rappresenta la santità del personaggio a cui è attribuita e, nel caso di Cristo, essa contiene una croce. L’aureola manca nei due Crocifissi precedenti, per cui la libertà dell’artista si è potuta esprimere accentuando la condizione umana di Cristo, mentre qui è imposta dalla committenza, perché si vuole riequilibrare il rapporto tra l’umano e il divino..
L’altro simbolo pregnante è la croce azzurra che adesso si è totalmente perduta (nell’incendio del 1749?). La croce azzurra è una tradizione umbro-toscana molto consistente nei due secoli precedenti; in particolare, la croce di Cimabue a Santa Croce è anch’essa azzurra.

croce blu 1croce blu 2croce blu 3

Da sinistra: Cimabue, Crocifisso, 1288 circa, Basilica di Santa Croce, Firenze; Maestro di San Francesco, Crocifisso di Perugia, 1272, Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia; Maestro dei Crocifissi blu, Crocifisso, secondo terzo del XIII secolo, Museo del Tesoro della Basilica di San Francesco, Assisi

Giovanna Ragionieri ha ricordato un insegnamento molto insistito di Luciano Bellosi sull’uso del lapislazzuli e del blu che vale la pena di riportare: “Bellosi chiarì senza equivoci che il fondo blu degli affreschi è un fondale equivalente all’oro delle tavole. L’enfasi con cui sottolineava la preziosità del lapislazzuli ha determinato in me e in altre allieve un gusto particolare per questo minerale. Dopo decenni di insegnamento nella scuola secondaria superiore, posso testimoniare che ci sono ancora manuali e docenti che scambiano questo blu per l’azzurro del cielo”. Testimonianza su Luciano Bellosi – di Giovanna Ragionieri Fonte:http://appuntidistoriadellarte.Blogspot .it/2014/11/testimonianza-su-luciano-bellosi-di3.html)
Donatello non ha mai dimenticato questa storia e ritorna con questo particolare alla tradizione gotica, senza rinnegare nulla dei cambiamenti apportati, ma arricchendo di senso storico e liturgico un tema, come quello del crocifisso, che era stato spinto agli estremi confini dell’innovazione e della provocazione con il Crocifisso dei Servi. Una croce azzurra può sembrare un pesante anacronismo in un’opera così pienamente rinascimentale come il Crocifisso del Santo: ma non dobbiamo dimenticare che l’azzurro, insieme alle dorature, simboleggia il divino, il Mistero che si rivolge verso l’umano. L’oro rappresenta il divino in sé (il sole, la parte del cielo rivolta verso il divino è di fuoco), l’azzurro rappresenta il Mistero in rapporto al mondo e all’uomo (il cielo rivolto verso il mondo è azzurro). L’uso di questo colore, anche se non nella croce bensì nel perizoma, in un crocifisso monumentale quattrocentesco lo si ha nel Crocifisso di Santa Maria del Fiore di Benedetto da Maiano a cui è stato restituito il vistoso colore azzurro originario: “La rimozione della ridipintura ha portato alla luce anche le reali dimensioni del perduto perizoma che doveva essere di tessuto azzurro, come hanno rivelato alcune tracce di colore sul legno e un filo rimasto impigliato in un chiodino. Quello ottocentesco era cortissimo, poco più di una fascia mossa di tessuto, mentre il perizoma quattrocentesco doveva ricoprire tutta la parte superiore della coscia. Dopo lo studio di altri Crocifissi di Benedetto da Maiano, in cui questo indumento tessile è ancora conservato, e varie prove su un modello 3D,appositamente realizzato, i restauratori hanno panneggiato un nuovo perizoma in tessuto di misto lino, tinto d’azzurro e trattato con una specifica resina che permette di mantenere la forma dei panneggi e di rendere meno ricettiva alla polvere la stoffa”. (Fonte: http://www.newscattoliche.it/ritorna-sullaltare-maggiore-del-duomo-di-firenze-il-monumentale-crocifisso/?lang=la)

crocifisso di benedetto da maiano

Benedetto da Maiano, Crocifisso, Basilica di Santa Maria del Fiore, Firenze

La divinità di Cristo, la presenza in Lui del Mistero viene così fortemente ribadita nella nuova opera per il Santo, voluta dai confratelli laici della Venerabile Arca: l’intervento dei laici non necessariamente significa una laicizzazione della committenza, bensì una reintegrazione dei fattori che costituiscono il dramma della crocifissione.

b) Gli elementi intrinseci della divinità: le proporzioni, la “pulizia” del corpo e il recupero della classicità

Il Crocifisso del Santo misura 177 cm in altezza e 170 (169,9 per la precisione) in apertura delle braccia. Rappresenta una via di mezzo e un punto di equilibrio tra quello di Santa Croce (più largo che alto) e quello dei Servi più alto che largo. Anche questo è più alto che largo, come è plausibile dal punto di vista fisico; ma contiene al suo interno una proprietà che gli altri crocifissi non possedevano. Dobbiamo, però considerarlo da un punto di vista totalmente frontale e considerarlo schiacciato sulla croce, senza la piegatura delle ginocchia che porta a diminuire l’altezza reale. Alla vista frontale l’altezza, misurata dalla testa ai talloni (senza contare il fatto che i piedi sono piegati in giù e schiacciati sulla croce dai chiodi), è pari alla larghezza dell’abbraccio delle mani stese sulla croce. Donatello realizza così il modello di uomo perfetto teorizzato nel canone di Vitruvio che prevede proprio l’iscrizione dell’uomo nel quadrato (idea all’origine, poi, del famosissimo homo quadratus di Leonardo Da Vinci)

homo quadratus 1homo quadratus 2

homo quadratus 3Da sinistra: iscrizione del Crocifisso del Santo in un quadrato; Vitruvio, misure proporzionali del corpo umano.

Leonardo da Vinci, Le proporzioni del corpo umano, Venezia, Galleria dell’Accademia

“Il centro naturale del corpo umano è l’ombelico; infatti, se una persona si distendesse a terra supina a braccia e gambe divaricate, puntando il compasso sull’ombelico e tracciando una circonferenza, questa toccherebbe entrambe le estremità dei piedi e delle mani. Nondimeno, com’è possibile inscrivere il corpo in una circonferenza così se ne può ricavare un quadrato; misurando la distanza dai piedi alla sommità del capo e riportandola a quella che intercorre tra un estremo e l’altro delle braccia aperte si costaterà che le misure in altezza e larghezza coincidono come nel quadrato tracciato a squadra.” (cit. da Marco Vitruvio Pollione, De Architectura Libri X, trad. di L. Migotto, Studio Tesi, Pordenone 1990, pag. 127).
L’imprimere a Cristo queste proporzioni ha un duplice scopo: in primo luogo, ridare a Lui la dignità della perfezione, immagine e simbolo della divinità, che gli è stata tolta con l’umiliazione della crocifissione e che emergerà fra poco evidente con la resurrezione; in secondo luogo, mostrare che Cristo è l’uomo perfetto, ideale, anche se sofferente e umiliato. Anzi, è l’uomo ideale vagheggiato dalla classicità non perché si astrae dai limiti dell’umano (sofferenza, impotenza, morte), ma perché li abbraccia, li attraversa, li assume su di sé e li trasfigura per amore, offrendo tutto se stesso per amore, dimostrando così la vera strada anche per noi per raggiungere la vera perfezione dell’umano. E questo è anche il vero senso della ripresa della classicità nel Rinascimento: non un ritorno al passato fine a se stesso, ma ispirarsi ad un modello ideale di perfezione con cui fare interagire tutto quello che nel frattempo l’umanesimo ha acquisito nella percezione del dramma umano, della forza del sentimento, della importanza della immedesimazione e del coinvolgimento di tutto l’uomo nel dialogo fra cielo e terra, fra divino e umano, in cui consiste l’incarnazione. Cioè: tenere unito ciò che l’uomo moderno sommamente vorrebbe e tende a dividere. Il passaggio che Donatello fa attraverso i tre Crocifissi è proprio quello di riabbracciare integralmente l’incarnazione come strada maestra del Rinascimento ben sapendo quali sono tutte le possibili riduzioni che nascono dal non tenere uniti gli elementi opposti, come appare dal percorso fatto.
Per quanto riguarda la “pulizia” del corpo tutti i critici sottolineano la grande levigatezza, la tornitura delle superfici corporee che rende al minimo l’impatto delle ferite sul corpo stesso, mentre la sofferenza, l’agonia di Cristo è concentrata tutta sul volto. Sembra che il corpo partecipi già della resurrezione e sia quasi già trasfigurato. Donatello ha reso artisticamente questa idea teologica togliendo il sangue che non cola più dalla ferite e non si raggruma come nei due precedenti Crocifissi, soprattutto quello dei Servi, delineando la ferita del costato come un taglio netto, “pulito”, rappresentando il corpo pulito come se fosse già lavato e pronto per risorgere, senza segni dei flagelli e della tragica via crucis, senza particolari spasmi e contratture di tendini e muscoli, bensì come se la muscolatura fosse quasi rilassata e non sentisse il morso della sofferenza re il peso della gravità spingere in basso quel povero corpo.
Sembra davvero il corpo di un atleta olimpico, di un dio greco, di un eroe mitologico: proporzionato, modellato con grande attenzione nella resa anatomica, nell’intensità espressiva, acutizzata da un taglio secco e asciutto della muscolatura dell’addome. Su questo, come diremo tra breve, è decisiva anche la scelta del materiale bronzeo che permette al massimo questo effetto di “pulizia” e di luminosità del corpo e della pelle. Il corpo insomma, già non partecipa più del dramma della agonia ma, pur portandone in sé i segni, anticipa già la dimensione della perfezione e della resurrezione, vera e propria testimonianza della integrazione della umanità, certo ferita, ma già cambiata dall’offerta di amore del sacrificio. E’ un anticipo e un modello di quello che accade a ognuno che abbraccia questa integralità e tiene uniti i due fattori, umano e divino. E’ una prefigurazione di quello che avviene dopo la resurrezione quando Gesù contemporaneamente entra con le porte chiuse nel Cenacolo (cioè supera le barriere del tempo e dello spazio) e nello stesso tempo fa mettere il dito nel costato: le ferita è vera in un corpo vero, ma che nello stesso tempo non è più sottoposto al limite del tempo e dello spazio. E’ l’immagine di una nuova dimensione della corporeità in rapporto con lo spirito: è un tenere unito quello che normalmente viene diviso. E’ questa l’idea della resurrezione che Donatello rappresenta nella fisicità già trasfigurata del corpo di Cristo in croce.
Il riferimento alla classicità, infine, è fortissimo nella scelta del bronzo come materiale: scelta apripista nel Rinascimento. Il bronzo, insieme all’oro, è il metallo più carico di significati simbolici sia dal punto di vista della mitologia greca che dal punto di vista biblico. Esso ha una ricca tradizione di significato: “Lega di stagno o argento e rame in proporzioni variabili il cui simbolismo deriva da quelle di tali metalli. Evoca il matrimonio tra la luna e il sole, fra l’acqua e il fuoco, il che già suggerisce l’idea di ambivalenza”. (Jean Chevalier – Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Vol. I, Rizzoli, Milano 1986, p. 156) Come è evidente dal fatto di essere una lega il bronzo rappresenta bene la fusione, l’unità in Cristo delle due nature, umana e divina, le quali fondendosi danno origine ad una cosa nuova: il bronzo rappresenta bene la novità della nuova creatura che ha origine in Cristo, non più solo immagine di Dio, come era dalla creazione, ma veramente una nuova stirpe, un nuovo tipo d’uomo che riesce a tenere unito l’umano e il divino, in cui consiste la perfezione e la felicità, non per uno sforzo, ma perché viene data una forza nuova.
Un secondo livello di significato ci viene dal mito Esiodeo de Le opere e i giorni: “Il significato simbolico del bronzo è molto preciso. E’ legato alla potenza che nascondono in sé le armi difensive del guerriero. Lo splendore del metallo getta nello spavento il nemico; il suono del bronzo battuto dal bronzo respinge i sortilegi dell’avversario”. (Jean-Pierre Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, Torino 2001) (Fonte: http://web.tiscali.it/atram2/Esiodo.html) Il bronzo caratterizza in questo mito la razza dei guerrieri: scegliere per il Cristo in bronzo significa esaltarne il valore di forza e splendore che incute terrore al nemico ed abbatte la sua influenza: il bronzo risuona e risplende, cioè irraggia effetti di energia divina che mette in fuga e sbaraglia il Nemico dell’uomo. Cristo in bronzo, significa, dunque, combattente possente e vincitore del male: chi in lui si identifica sarà invincibile.

costato

Donatello, Crocifisso, Basilica del Santo, Padova

Il bronzo, dunque, rappresenta la forza e l’aggressività incanalate e dirette alla battaglia dell’uomo contro tutto ciò che tende a ridurlo e a dividerlo, rappresenta la determinazione e la resistenza per la conquista del bene, come sottolinea Lucrezio: “Il bronzo la cui resistenza si presta ai violenti sforzi” (Tito Lucrezio Caro, De Rerum Natura, 1270).
Un altro universo di significati, che va ad integrare questi che provengono dalla classicità e ricompresi da Donatello, sono i significati che provengono dal mondo biblico. “La Bibbia racconta che tutto iniziò quando Mosè per convincere il Faraone che le sue parole venivano da Dio, buttò per terra il bastone di Aronne e questo si trasformò in serpente. Il Faraone dunque chiamò i suoi maghi che ripeterono l’incantesimo, ma, a prova della superiorità del Dio di Mosè, il serpente del patriarca mangiò i serpenti dei maghi del Faraone. (Esodo 7, 8-12) L’aspetto riguardante il “bastone magico” ha poi generato molte leggende creando un proprio filone. Il “serpente” invece ritorna nella Bibbia quando Dio, in seguito alle lamentele per la durezza del viaggio nel deserto, manda fra gli Israeliti dei serpenti velenosi che mietono numerose vittime. Il popolo pentito si rivolge allora a Mosè affinché preghi il Signore di allontanare i serpenti. Dopo che Mosè ebbe pregato, Dio gli ordina di forgiare un serpente di bronzo e di collocarlo in vista del popolo: chiunque fosse stato morsicato dai serpenti velenosi, si sarebbe potuto salvare solo guardando verso il serpente di Mosè.” (Numeri 21, 4-8) (http://it.wikipedia.org/wiki/Nehustan) “Il Signore disse a Mosè: «Fatti un (serpente) bruciante e mettilo sopra un’asta: chiunque sarà stato morso e lo guarderà, continuerà a vivere». Mosè è invitato a elevare il serpente alla stregua di un vessillo, come se fosse il segno della vittoria e dell’adunata. Il vangelo di Giovanni coglierà in questo fatto il rimando al valore salvifico della croce di Cristo (cfr Gv 3, 14s). Chiaramente i Padri della Chiesa danno una interpretazione cristologica di questa narrazione di Num 21, 8: «Il serpente colpì Adamo nel Paradiso e lo uccise. Colpì anche Israele nell’accampamento e lo annientò. Come Mosè levò il serpente nel deserto, così il Figlio dell’uomo sarà sollevato (Gv 3, 14). Come loro che guardarono con gli occhi del corpo il segno che Mosè fissò sulla croce vissero secondo la carne, così anche coloro che guardano con occhi spirituali il corpo del Messia inchiodato e sospeso sulla croce e credono in lui vivranno spiritualmente. Pertanto fu rivelato attraverso questo serpente di bronzo, che per natura non può soffrire, che colui che avrebbe sofferto sulla croce è per natura colui che non può morire». (Efrem il Siro, Commento sul Diatessaron di Taziano, 16, 15) « Grande mistero, essere guariti da un serpente! Che significa essere guariti dal serpente, guardando il serpente? Significa essere salvati dalla morte, credendo nel Morto. Eppure Mosè si spaventò e fuggì (Es 4, 3). Che significa questo fuggire di Mosè dinanzi a quel serpente? Lo sappiamo dal Vangelo, o fratelli. Quando Cristo morì, i discepoli si spaventarono e abbandonarono quella speranza che fino allora avevano avuta in cuore (cfr Lc 24, 21)». (Agostino, Esposizioni sui Salmi, 73, 5) «Quel serpente fu sospeso in alto come rimedio contro i serpenti mordaci, non come un simbolo di colui che soffrì per noi, ma come un contrasto. Esso salvò quelli che lo guardarono, non perché credettero che vivesse, ma perché fu ucciso,ed uccisi con esso furono i poteri che gli erano sottomessi, venendo distrutti come meritavano. E qual è il giusto epitaffio per esso da parte nostra? O morte, dov’è il tuo pungolo? O inferno, dov’è la tua vittoria? (Os 13, 14). Tu sei rovesciato dalla croce, sei ucciso da colui che è dispensatore di vita. Sei senza fiato, morto, senza movimenti, anche se conservi l’aspetto del serpente sospeso in alto». (Gregorio di Nazianzo, Sulla Santa Pasqua, Orazione, 45, 22) (http://www.unitalsi.info/public/web/documenti/620101061217562010216124659scheda1.pdf)
Il serpente di bronzo, grazie alle due nature presenti in esso, è capace di trasformare la morte apportata dal veleno del serpente (quello stesso serpente, si badi bene che ha originato con la sua tentazione la caduta di Eva) in vita, resistenza, forza ed energia, cioè le caratteristiche della Grazia. Dunque, il Cristo in bronzo, per Donatello rappresenta simbolicamente e implicitamente la forza della grazia che irraggia con il suo splendore nei fedeli credenti che “volgeranno lo sguardo” verso di esso, così come tutti “volgeranno lo sguardo verso colui che hanno trafitto” (Gv 19, 37) E’ una profezia antica del Profeta Zaccaria, che invita i popoli interi a riferirsi a Gesù, il Crocifisso, il Risorto e che Gesù conferma durante la sua vita: “Quando io sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Ecco che la visione del Crocifisso diventa occasione di cambiamento per noi se sappiamo profondamente immergerci nello splendore della grazia che promana dall’immagine e fonderci totalmente con la presenza che in essa irradia: ecco il significato simbolico della scelta del bronzo per il Cristo di Donatello al Santo. Scegliere il bronzo significa riferirsi a Cristo in Croce che si pone come alternativa alla attrattiva del male (non riconoscere Dio), cioè il serpente come tentatore che diventa croce come fonte di salvezza.

c) I riferimenti alla regalità: la corona e il cartiglio

A completare questo significato intervengono i riferimenti alla regalità che vengono ripristinati in quest’opera. Questa esigenza deriva dal fatto che senza questi elementi simbolici la figura risulta troppo sbilanciata verso l’umanità ferita e, quindi, non è in grado di offrire al fedele gli elementi di speranza che provengono dalla resurrezione. Se il cristianesimo si fermasse al venerdì santo sarebbe assurdo (la morte e la distruzione fine a se stessa): solo la promessa certa della resurrezione e della realizzazione piena delle potenzialità dell’uomo può convincere la persona ad aderire a quell’uomo apparentemente sconfitto e umiliato.
Il nostro capolavoro porta invece già in sé i germi della vittoria. Cristo viene cinto durante la passione di una corona di spine: “I soldati condussero Gesù nell’interno del cortile, cioè nel pretorio, e radunarono attorno a lui tutta la coorte. Lo spogliarono, gli misero addosso una clamide scarlatta; intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero una canna nella destra. Poi venivano e, piegando il ginocchio davanti a lui, lo schernivano, salutandolo: «Ave, re dei giudei», e gli davano schiaffi. E dopo avergli sputato addosso, presero una canna e lo percossero sul capo”. (Mt 27, 27-30; Mc 15, 16-19; Gv 19, 1-3) Sappiamo che in origine la corona di spine doveva essere una calotta: “San Vincenzo di Lérins dice: « Gli posero sul capo una corona di spine; essa era. in realtà, in forma di pileus, cosicché da ogni lato ricopriva e toccava il suo capo ». Il «pileus» era, presso i romani, una specie di cuffia semiovale di feltro, che avvolgeva il capo e serviva soprattutto durante il lavoro. Quindi la corona di spine di Gesù era una specie di calotta formata di rami spinosi intrecciati — e non una fascia — la quale doveva essere fissata attorno al capo mediante un laccio. Molte spine della corona furono distri¬buite nel corso dei secoli in tutto il mondo, per soddisfare la devozione dei cristiani.

corona di spine 1corona di spine 2

La corona di spine a forma di calotta e la reliquia della Sainte-Chappelle

Si ammette generalmente che esse appartenessero ad un arbusto spinoso comune in Giudea, il Zizyphus spina Christi, una specie di giuggiolo. (È probabile che ve ne fosse un mucchio nel pretorio, per il riscaldamento della coorte romana). Le sue spine sono lunghe e molto pungenti. A Roma se ne custodiscono alcune così lunghe e forti, rotonde e acute che sembrano pugnali . Esiste a Notre-Dame di Parigi la corona di spine. San Luigi la riscattò dai veneziani, e fe¬ce costruire per essa una santa cappella. Ora, questa corona non presenta spine: è un cerchio di giunchi intrecciati. Ma la cosa si spiega pensando che, dopo aver imposto la calotta di spine, i soldati l’abbiano fissata sulla testa, serrandola attorno alla fronte e alla nuca con una treccia di giunchi. (Fonte: http://passiochristi.altervista.org/pass_20_gesu_incoronato.htm)
In Donatello, come nel prototipo di Brunelleschi, la corona è ridotta ad una corda intrecciata, come appare nella reliquia della Sainte-Chappelle che è una serie di giunchi intrecciati, senza spine. Se effettivamente fosse la corona originale è plausibile il fatto che sia senza spine perché queste sono state donate come reliquie a tantissimi luoghi della cristianità. “La storia della corona di spine di Gesù, una delle più insigni reliquie della Passione, recuperate da Sant’Elena e tanto care alla devozione dei cristiani d’Occidente e d’Oriente, è una storia di fede, ma anche di soldi, di “regali” interessati e insieme di generosità e condivisione. Queste ultime virtù sono evidenziate dallo stato attuale della reliquia della corona, conservata a Notre Dame: le sue spine sono quasi del tutto assenti; offerte, nel corso dei secoli, alle tante chiese e diocesi dell’Europa.
Le chiese francescane, in particolare, hanno beneficiato dell’appartenenza di San Luigi IX al Terz’Ordine di San Francesco, ricevendo spesso alcune spine della Corona di Gesù. L’imperatore latino di Costantinopoli Baldovino II aveva “donato” al re di Francia San Luigi tutta una serie di reliquie che erano poi state collocate, in gran parte, nella Sainte-Chapelle di Parigi costruita appositamente per contenerle. Baldovino infatti, nel 1238, si trovava in Francia per cercare di rastrellare fondi e aiuti militari per sostenere il suo impero latino dal tentativo di riconquista dei legittimi proprietari ossia i Bizantini che avevano perduto la città per mano dei Veneziani durante la cosiddetta IV Crociata. In quell’occasione Baldovino impegnò presso la Corona francese la Contea di Namur per 500.000 lire di Parigi e regalò al re di Francia la reliquia nota come “Corona di Spine di Nostro Signore”. Quest’ultima però non l’aveva con sé visto che l’aveva impegnata presso i Veneziani a fronte di una forte somma di denaro. Perciò San Luigi riscattò con grande esborso di denaro la reliquia ricevuta “in regalo” portandola poi a Parigi. Per essa fece costruire la “Sainte Chapelle”, la più bella delle chiese del gotico francese, splendido reliquiario di vetro e pietra per la più insigne delle reliquie di Parigi”. (Testo preso da: La corona di Spine del Signore e le reliquie della Passione presso la Basilica di Sant’Antonio a Padova http://www.cantualeantonianum.com/2012/03/la-corona-di-spine-del-signore-e-le.html#ixzz3btHO6qox ).
La incoronazione di Gesù da parte dei soldati è un gesto di dileggio che proviene dalla tradizione militare romana della corona civica: “Realizzata in forma di serto di quercia, più anticamente leccio o ippocastano, la corona civica era la seconda onorificenza militare in ordine di importanza, dopo la corona obsidionalis, ed era assegnata a quel soldato che avesse salvato la vita di un cittadino romano in battaglia; recava la scritta Ob civem servatum. L’ottenimento di questa corona era un grande onore, ed era conseguentemente regolato da condizioni restrittive: per ottenere la corona il soldato doveva salvare un cittadino romano in battaglia, uccidere il nemico e mantenere la posizione occupata fino alla fine della battaglia. Non era possibile impiegare la testimonianza di un terzo, ma solo quella del cittadino salvato: questa condizione rendeva difficile l’ottenimento della corona, in quanto i soldati romani non erano inclini a riconoscere il gesto del loro camerata, in quanto sarebbero poi stati obbligati a portare loro deferenza. In origine la corona civica veniva conferita dalle mani del soldato salvato, dopo che il tribuno avesse indagato la cosa interrogandolo; durante l’impero, invece, il soldato veniva decorato direttamente dall’imperatore o da un suo delegato, in quanto dal princeps provenivano tutti gli onori. Una volta ottenuta, questa onorificenza poteva essere sempre indossata. Il soldato decorato con la corona civica aveva un posto riservato vicino ai senatori in occasione degli spettacoli pubblici, e i senatori dovevano alzarsi al suo ingresso. La decorazione portava con sé l’esenzione dai doveri pubblici per il soldato decorato, per suo padre e per il nonno paterno. Il cittadino salvato in battaglia doveva considerare il proprio salvatore come un parente, dovendogli quel rispetto e quelle obbligazioni che un figlio doveva al padre”. (Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Corona_civica)
Dunque, questa corona rappresenta un tipo di gloria derivante dal coraggio, dalla disposizione al sacrificio e dall’avere portato salvezza in battaglia ai propri compagni: tutte queste caratteristiche si possono efficacemente applicare a Cristo, combattente inerme e sconfitto dal punto di vista della forza materiale, ma vincitore e apportatore di forza dal punto di vista della scala dei valori morali e religiosi. Una regalità, dunque, che nasce dal coraggio della lotta contro il male e dalla vittoria contro il Nemico. Naturalmente, tutto dentro la prospettiva della inversione simbolica dei significati: il serpente (simbolo del Nemico) che diventa croce, la corona (simbolo della forza militare) che diviene simbolo della forza spirituale della resurrezione. Questo re è un re diverso dall’immagine del potere, ma i soldati involontariamente lo hanno incoronato come loro modello ideale, senza sapere di indicare così ai cristiani la vera essenza della forza e grandezza di questo re umiliato ma vincitore. Il cartiglio con la scritta INRI rappresenta anche esso una testimonianza indiretta della regalità di Cristo, del suo potere nuovo che assume con la morte e soprattutto con la resurrezione. I farisei volevano che Pilato scrivesse “costui dice di essere il re dei giudei”. Ma Pilato rispose “quel che è scritto è scritto”, facendo involontariamente prevalere la oggettività sulla ideologia dei farisei. Così il rispetto della oggettività di un fatto (il potere di Cristo sul mondo) diventa simbolo di una affermazione della realtà sulla ideologia dell’uomo rappresentata dalla malizia dei farisei che non accettano la pretesa di Cristo. Dunque, con il ripristino di queste importanti simbologie, non accessorie ma sostanziali nell’economia semantica della Croce, Donatello riequilibra e completa il senso del Crocifisso che si era un po’ sbilanciato ed estremizzato nella precedente opera. Nella testa del Cristo questa corona si fonde con l’ampia, regale e folta capigliatura. E’ un elemento più simbolico che realistico: non intende calcare sulla rappresentazione ma sul significato.

4. La persistenza e la forza della umanizzazione: nuovi elementi del realismo fisico

La ritrovata dimensione divina non toglie però la dimensione umana: l’opera non perde nulla del suo realismo nell’acquistare pregnanza spirituale, semplicemente trasfigura lo stesso umano in qualcosa di perfettamente fuso ed equilibrato con il divino che non è altro che la piena realizzazione delle sue potenzialità di “immagine” del divino stesso. E questa è l’essenza stessa del Rinascimento: accogliere la sfida di questa piena fusione dell’umano e del divino nel segno artistico. Tutta la figura di Cristo è perfettamente equilibrata, tranne la testa che è reclinata verso destra. Gli effetti della agonia si mostrano prevalentemente nel bellissimo volto e nella testa di Cristo. Sul corpo la muscolatura è perfetta a rappresentare l’umanità trasfigurata dalla divinità. La testa è un capolavoro per la resa nei minimi dettagli, con i peli della barba e i capelli minuziosamente modellati e per la straziante ma composta emotività della sofferenza nel momento vicino alla dipartita terrena. Le guance sono consunte e gli occhi scavati profondamente, la bocca è aperta come a spirare l’ultima esalazione dell’anima.
La maggiore duttilità plastica del bronzo rispetto al legno (al contrario di quello che sembra, il bronzo accoglie meglio i particolari perché, solidificandosi dentro lo stampo, si dilata leggermente aderendo perfettamente al calco voluto dall’artista e realizzando, quindi, molto più docilmente i dettagli impressi), permette a Donatello di aggiungere nuovi particolari anatomici che rendono ancora più realistica la rappresentazione, come la vena ingrossata sulla fronte e quelle lungo gli avambracci, quelle sotto le ginocchia, lungo i polpacci e sul piede destro di Gesù. Questi particolari comunicano efficacemente tutta la tensione dell’agonia, tutta la profonda sofferenza a cui è sottoposto il fisico di Gesù. I capelli di Cristo sono perfettamente pettinati e scriminati al centro: anche qui non sembra che il ciclone della passione e della violenza sia passato su questa testa bellissima: la violenza è ridotta al minimo. Le sopracciglia sono folte e gli occhi, coronati da folte ciglia, ormai quasi del tutto chiusi. Solo la bocca semiaperta, che lascia intravvedere la perfetta dentatura, lascia intuire lo spirare della vita da questo corpo sublime e violato. Anche nella testa che, pure, raccoglie i segni maggiori della sofferenza, predomina però la misura e la moderazione nell’introdurre questi elementi che richiamano la violenza e il dolore. Se i due precedenti Crocifissi hanno dentro la Sensucht romantica, questo del Santo rappresenta lo stesso pathos e la stessa tensione emotiva però con il perfetto equilibrio e la perfetta armonia del Rinascimento di cui Donatello ci dà la più alta manifestazione.
5. La umanizzazione riconciliata nella nuova soluzione del problema della nudità
A questo processo di umanizzazione riconciliata con la divinità attraverso la bellezza e l’equilibrio, appartiene anche la nuova soluzione al problema della nudità che Donatello introduce con la creazione del perizoma. La nudità totale è insostenibile in un oggetto di venerazione liturgica come il crocifisso: può servire come provocazione in qualche caso isolato, ma sarebbe troppo distraente e troppo duro come segno per la fede normale in una chiesa. Quello che guadagna in forza di impatto la nudità totale del cristo la perde in contenuto complessivo del messaggio religioso che intende comunicare. Va bene, dunque, come esperimento nel Cristo dei Servi (poi naturalmente il perizoma verrà aggiunto nella ostensione liturgica realizzandolo con stoffa cerata, come nel Crocifisso di Benedetto da Maiano a Santa Maria del Fiore a Firenze), ma non può essere considerata come una proposta definitiva, quale, invece, quella rappresentata dal perizoma del Crocifisso del Santo. Ora, invece, questa soluzione ideale del problema non è stata per niente riconosciuta storicamente: anche oggi la maggioranza degli autori ritiene il perizoma una aggiunta barocca apportata successivamente forse nel seicento, quando è stato trasferito dal pontile nel 1641 o durante il restauro susseguito all’incendio del 1749. A sostenere per primo questa tesi, che ha avuto un seguito acritico in tanta storiografia, è stato Hans Kauffmann, nella sua biografia su Donatello del 1935 (Hans Kauffmann, Donatello, Berlino 1935). Francesco Caglioti, invece, giustamente, ridiscute radicalmente questa tesi sulla base di considerazioni assolutamente fondate, sia di tipo tecnico che di tipo estetico. Della sua ampia argomentazione, che abbiamo integralmente riportato in nota, riprendiamo sinteticamente alcune di queste osservazioni tecniche ed estetiche, quelle che ci sembrano le più decisive. La prima considerazione deriva dal fatto che le membra del Cristo sono perfette e non portano nessun segno di saldatura di un nuovo manufatto sotto di esse: questa è la prova inoppugnabile che il perizoma, tranne le parti svolazzanti, fu fuso insieme al corpo in un unico momento. Un’altra constatazione tecnica rafforza questa certezza: La corda a cui è appeso il perizoma è identica a quella che rappresenta la corona di spine e che è inserita fra i capelli di Cristo: nessun rimaneggiatore seicentesco l’avrebbe fatta così ed è più plausibile che l’autore di entrambe sia lo stesso. Infine, una argomentazione di tipo estetico: il perizoma è talmente ridotto che lascia scoperti i glutei e le natiche lungo i fianchi e tutta la parte posteriore. Esso ricopre così due funzioni in modo molto elegante: quella di coprire il Cristo evitando il nudo integrale e quello di esprimere, comunque, la nudità, la spogliazione, lo svuotamento della divinità di Cristo per amore dell’uomo. Il senso del Crocifisso dei Servi è qui pienamente conciliato e pacificato con le esigenze liturgiche senza nulla perdere della sua pregnanza ed acquistando invece in efficacia semantica. Infatti, quello svolazzo del panno e della corda, travolti da un vento impetuoso, comunica bene l’idea del temporale che investì la zona del Calvario subito dopo la morte di Cristo. Cristo aveva colpito i suoi discepoli per la sua energia che comandava sugli eventi atmosferici: “Chi è costui al quale il vento e il mare obbediscono?” (Mc, 4, 41), si sono chiesti dopo che aveva calmato la tempesta. Un’altra tempesta, unita ad un terremoto, viene a sua volta a testimoniare la sua divinità e il suo dominio sulle forze del cielo e della terra. Quel drappo svolazzante, ancora una volta, mostra la sua umiltà che si spoglia di tutto e che lo lascia quasi del tutto nudo, insieme alla sua potenza divina che domina le forze della natura. Ancora una volta un segno che dimostra la confluenza in quest’uomo della divinità e dell’umanità. Il Rinascimento seguiva una regola raccomandata da Leon Battista Alberti di introdurre il vento nelle figure per renderle eleganti e dinamiche: Donatello lo fa in modo geniale in questo perizoma svolazzante che è tutt’altro che barocco perché perfettamente inserito nella semantica generale dell’opera, in modo misurato e calibratissimo, come si addice ad un capolavoro del Quattrocento.

Fine della terza e ultima parte

Zennaro Giulio (giugno 2015)

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